Partiti e politici
Il Paese urla e il Pd è un frutto nato fuori tempo: intervista ad Andrea Orlando
Alle primarie del Pd manca un mese e mezzo, e il ministro della Giustizia e candidato segretario Andrea Orlando fa tappa a Milano. Arriva a notte in albergo direttamente da Treviso, l’indomani sarà a Roma per una manifestazione con Goffredo Bettini. “Ovunque trovo tanta gente, gente che mi dice che è rimasta nel Pd perché c’è questa ipotesi, sennò se ne sarebbe andata”. Il suo è un cammino verso il congresso e le primarie difficile, lungo il sentiero stretto dello spazio non conquistato o deluso dal renzismo, in un partito che in pochi anni non ha cambiato solo la pelle, ma anche la pancia e l’anima.
Una volta, anni fa, ti ho sentito dire che le cose più importanti che hai imparato, facendo politica, le hai imparate nel Pci. Sei nato nel 1969, quando il Pci si sciolse avevi poco più di vent’anni. Vuol dire che nel Pci erano fenomeni, che tu hai smesso di imparare o che qualcosa non ha funzionato dopo?
Qualcosa, dopo, non ha funzionato. Quelle erano grandi scuole e dovevi attraversare grandi organizzazioni. C’era un divisione del lavoro, era chiara la missione sociale e i ruoli di ciascuno all’interno. In questo periodo incontro tante persone che vengono da quella storia ma anche da altre scuole, gente che ha imparato a fare politica dentro a una dimensione collettiva che ti sfida e ti mette alla prova, e ti ricorda sempre cosa serve per fare quel lavoro. Era quella una modalità di partecipazione politica che conteneva la dimensione dell’ego.
Invece col passare del tempo sembra aver vinto Freud, e che invece abbia perso Marx…
Intendiamoci: anche allora esistevano personalità ed ego forti, ma la struttura li comprimeva e incanalava, mentre oggi in questa dimensione atomizzata sembra non esserci altro. E questo paradossalmente è più evidente a livello locale che non a livello nazionale. Il grosso delle discussioni, dei dissidi, dei litigi sembra svolgersi integralmente all’interno del Pd, come se ogni questione politica si esaurisse nell’arco del pd. Come se quello fosse tutto.
Poi fuori c’è il mondo. Le recenti sconfitte elettorali e i sondaggi, infine, ricordano che invece “tutto” non è.
E a livello locale questo è ancora più vero. Tanto che sempre più spesso il partito, da perno della stabilità diventa invece epicentro delle crisi che nulla hanno a che vedere non dico con le questioni ideologiche o programmatiche, ma neppure con la dimensione dell’appartenenza alle correnti nazionale con relativa dialettica. Una dimensione, che genera crisi politica e amministrative, e che ricorda molto, però, quella delle bolle generate attorno a noi dagli algoritmi di Facebook, che in qualche modo ci isolano dal mondo e ci fanno stare dentro a una cerchia ristretta in cui finiamo con lo specchiarci.
Tu sei il prodotto di un partito che questa sensazione di scollamento dalla realtà l’ha costruita e alimentata ben prima degli algoritmi di Facebook. Cosa non ha funzionato nel pd? Perché abbiamo parlato, voi che facevate politica e noi che vi raccontavamo, una lingua tutta nostra?
Il tema del correntismo apolitico, cioè non legato a diverse visioni della realtà e a interessi realmente rappresentati e fortemente personalistico, inizia con il Pd stesso. Inizia con il Pd perché il pd stesso è un frutto fuori stagione. Nasce con un’idea di partito e rappresentanza radicati negli anni 90, mentre siamo già nel pieno del 2000. Nasce maggioritario e bipolare in un tempo in cui entrambi gli elementi andavano stemperandosi, e così finisce con il rendere predominanti i personalismi rispetto le idee. E adesso si tratta di immaginare tutto daccapo, per ricostruire il suo ruolo e la sua cultura politica.
In un tempo in cui il concetto stesso di “cultura politica” sembra da reinventare daccapo…
È vero, ma dalla crisi in poi sicuramente abbiamo archiviato l’idea di una globalizzazione sorridente che si espandeva senza costi. Dalla crisi abbia riscoperto la centralità del concetto e del dovere di perseguire l’eguaglianza, mentre uscivamo da anni in cui è stato assolutamente dominante il concetto di libertà, e lo Stato e lo stato sociale erano avvertiti come costrizione e pesi. Oggi torna la domanda di rassicurazioni forti: a essa si possono dare una risposta di destra, isolazionista e identitaria e sovranista, oppure di sinistra, che invece cerca una modalità di governo della globalizzazione.
Queste stesse cose le dicevi alle feste dell’Unità nell’estate del 2013, quando sostenevate Cuperlo. Dicevi “io preferisco le socialdemocrazie”. Poi quel congresso lo stravinse Renzi, e tu sei stato un esponente centrale nel governo Renzi e nella sua maggioranza all’interno del partito. Oggi di questa cosa ti si chiede conto: cosa ti ha convinto di Renzi e del suo percorso allora, e quale critica e autocritica ti ha portato ora a candidarti in alternativa a lui.
Quando io mi schierai nel 2013 con Cuperlo, non capii, non capimmo quanto profondo fosse il logoramento di una struttura. Renzi e la sua parola d’ordine – rottamazione – vinsero, incrociando una domanda di cambiamento pregressa che era anche l’altra faccia del logoramento di una struttura.
O di una storia?
Io direi di una struttura, più che di una storia. Noi abbiamo avuto il boom del renzismo proprio nelle regioni di storico insediamento rosso. Dove improvvisamente è franato un modello di coesione sociale.
O erano territori e regioni radicalmente conformisti e continueranno a esserlo?
No, si è rotto un modello di coesione sociale, di rapporto tra lavoro e impresa. Questo tracollo di una vecchia stagione politica, non a caso, coincide con la crisi di un certo modello di sviluppo economico, del modello dei distretti, paradigmatico è l’esempio di Prato che diventa cinese.
In realtà questa crisi e questa trasformazione si era compiuta da un po’. Il passaggio non avviene tra il 2012, quando vince Bersani, al 2013, quando invece esplode Renzi.
Non c’è un rapporto sincronico tra struttura e sovrastruttura, come dicevamo un tempo. C’è sempre una sopravvivenza della sovrastruttura al cambiamento degli elementi sociali ed economici, cioè strutturali, fino a quando l’onda non diviene troppo alta e non travolge le vecchie forme di rappresentanza. Questo fenomeno è quel che abbiamo visto succedere negli scorsi anni dentro al Pd, e Renzi aveva capito cosa stava succedendo prima e meglio di noi. Noi dopo quella sconfitta abbiamo pensato che lui, incorporando e introiettando una certa dose di populismo, potesse meglio costruire un argine contro il populismo peggiore. Il risultato del referendum ci ha detto che questo non era vero, che non funzionava così, e che anzi la sfida ai populismi giocata sul loro terreno, usando argomenti che usano loro, ha finito per rafforzarli e per aprirgli ulteriori varchi.
Giorgio Napolitano ha capito che il cavallo era quello sbagliato?
Non lo so. Come noi aveva pensato che Renzi rappresentasse l’argine più alto. Forse qualche dubbio a lui come a noi è venuto durante la campagna referendaria, anche se forse avremmo dovuto farcelo venire prima, dopo la sconfitta alle elezioni amministrative. Il problema fondamentale non era però che il cavallo fosse sbagliato, perché forse non era così. Il problema è stato che non si è voluto prendere sul serio il risultato del referendum. Io avevo proposto di fermarci a pensare davvero alla sostanza.
La candidatura di Orlando nasce dunque come presa d’atto di una mancata analisi e autocritica dopo la sconfitta referendaria?
Assolutamente sì. Io avevo proposto una conferenza programmatica, e son stato preso in giro come un burocrate. La sostanza, necessariamente, però resta quella. Non credevo servisse una procedura burocratica: credevo e credo, però, che servisse riconsiderare chi siamo, a cosa serve questo partito, e come si rapporta alla società, invece che correre verso un congresso che utilizza regole frutto di una vecchia stagione, fortemente leaderistica. Oggi invece servirebbe ricostruire idee e orizzonti forti a supporto di una leadership, invece che partire da quella, perché la fase è cambiata e il referendum te lo ha detto fortemente. Non è solo una questione di aver perso 60/40, ma di distribuzione di quei voti.
Vincete nelle vostre regioni, in centro a Milano e Roma, e tra i garantiti e i pensionati.
È una fotografia che non possiamo accettare in alcun modo, anche perché ci riporterebbe alla dimensione sociale e demografiche del Pd pre-Renzi, con alcune aggravanti: perché in alcune realtà ancora “rosse” fino al 2012/2013 siamo stati spazzati via. Non è solo questione solo di sottoproletariato e nuova marginalità: c’è anche tutto un mondo di ceto medio di derivazione progressista che non ci vota più. Peraltro, già ai tempi di Veltroni, fuori dal raccordo anulare a Roma il centrosinistra perdeva sempre. Ma il pezzo di città che ci votava era più ampio, e quindi si vinceva. Oggi non è proprio più così.
Peraltro anche la scommessa delle riforme istituzionali come motore di consenso è molto politicista.
Sì, è molto da centrosinistra tradizionale. Infatti è sconcertante la posizione di tanti che hanno sostenuto il no, perché queste riforme erano esattamente il compimento di un percorso di cui erano parte. Il paradosso però che vale per tutti e deve servire a tutti è anche un altro: sul terreno istituzionale abbiamo alla fine riscoperto la questione sociale. Il voto no è stato, in parte decisiva, un voto di manifestazione del disagio sociale, se non della disperazione.
Ma come fate adesso a parlare con quel mondo al quale delle categorie politiche che utilizzi non frega niente? Che lingua devi usare, su quale terreno puoi incontrare quel pezzo di paese che pur di cambiare voterebbe chiunque, soprattutto dove non c’è crescita economica?
Questo non è un esercizio cui si rimedia cambiando slogan e posizionamento. Il lavoro è complicato, e parte dal reinsediamento sociale. Intanto dobbiamo ricominciare ad ascoltare. La gente urla perché sa che se parla non la stai a sentire: e questo è un dato di fatto. E noi abbiamo visto che questi decibel son saliti in pochissimi anni. A Milano abbiamo avuto il primo capitolo con la vittoria di Pisapia. Era una critica al vecchio centrosinistra, se ci si pensa bene, che si svolgeva e compiva tutta all’interno del centrosinistra stesso. Poi il movimento è uscito dal perimetro. E adesso serve un lento e lungo lavoro di risalita, e un partito serve proprio a questo: perché non sarà un bel comizio o un buon talk show che rovescia una dinamica così profonda. Qui si tratta di riaprire luoghi di incontro e confronto, si tratta di prendersi con pazienza delle giornate di insulti, per poi ricominciare ad aprire una discussione seria.
A parte i teatri pieni, qualche insulto te lo prendi in giro?
Basta andare sul mio profilo Facebook per vedere la temperatura. Ma noi su Facebook possiamo registrare qualcosa, ma non ricostruire dialogo e rapporti. Questo possiamo farlo solo ricominciando a fare davvero politica nelle città e nei paesi, parlando con le persone. Sapendo che probabilmente molte persone non torneranno a votare o a votarci per tanto, tanto tempo. E però fare politica significa comunque porsi il problema di come includi questi cittadini nel processo democratico, al di là della loro partecipazione. Se fai un piano regolatore o un bilancio, il tema te lo devi porre. Perché il punto non è solo avere una maggioranza assoluta, che è sempre più difficile, ma il tema è quello di ricreare un dialogo tra le “bolle politiche” in modo da poter condividere degli elementi minimi che consentano comunque di agire, di cambiare le cose, di fare leggi e riforme ad ogni livello politico-amministrativo.
In un contesto così polarizzato e così esposto ai populismi, l’Italicum non era forse la miglior legge elettorale possibile.
Io non sono mai stato un fan dell’Italicum. Attenzione però a non rassegnarsi troppo a “questo” proporzionale. Ho la sensazione che continuare a ripetere “mattarellum” sapendo che non ci sono spazi per arrivarci sia un ottimo modo per andare a votare con la legge che c’è. La prospettiva susseguente sarebbero le larghe intese, per forza di cose, oppure un nuovo voto sei mesi dopo. Io credo che sia bene evitare entrambe le cose.
Come?
Intanto ascoltare cosa vogliono fare gli altri sulla legge elettorale sarebbe un esercizio utile, anzi direi indispensabile. Diversamente, viene il dubbio che si voglia andare a votare con la legge che c’è, perché di questa legge, più di ogni altra cosa, viene il sospetto che la cosa che piace di più sono i capilista bloccati.
A proposito di schizofrenie, pensiamo ai voucher. Siete passati dal fare ciaone alla Cgil al rincorrerla per evitare un referendum.
È la conseguenza di non avere un’interlocuzione politica. Si fosse costruito un percorso di verifica di questi strumenti e del loro funzionamento, con relativa possibilità di intervento, forse non saremmo arrivati fin qui, forse la Cgil non avrebbe raccolto le firme. Naturalmente c’è anche un tema del sindacato, perché un pezzo del sindacato invece voleva lo scontro a prescindere, perché in tanti luoghi della rappresentanza ormai è passata l’idea che ogni dialogo sia inciucio o capitolazione e questa è evidentemente una regressione.
Di sicuro, in parte dei voucher si abusò, e in altra parte però servivano a far emergere il nero. Ora il problema dell’emersione del nero ce l’abbiamo tutto lì. Io mi auguro che rapidamente si apra un’interlocuzione normale e un nuovo intervento normativo sensato, perché non vorrei mai che passi l’idea che tutto questo è successo solo per evitare il referendum.
La vicenda dice che la presa di Renzi è ancora molto forte sul governo, e l’autonomia di Gentiloni limitata?
Credo in realtà che Gentiloni abbia dovuto, su questo tema, fare una scelta di real-politik. Più che obbedire a un diktat, ha dovuto prendere questa vicenda per la coda, a giochi già fatti, con equilibri cristallizzati e non modificabili.
Renzi lo hai sentito dopo la tua candidatura? Vi parlate?
Ci siamo scambiati gli auguri.
Calorosissimi, mi pare di capire.
(ride) Io son da sempre accusato per la mia freddezza…
C’è anche la critica opposta. C’è chi dice che alla fine del congresso, quando Renzi avrà vinto, potrà dire che ha vinto un congresso vero perché in campo c’era Orlando. Cioè, Orlando con la sua candidatura perdente ha reso “vere” le primarie che incoroneranno ancora Renzi?
Le primarie saranno vere se vincerà Orlando. Io voglio renderle verissime.
Perché se ne sono andati Bersani e D’Alema, se erano così vere queste primarie?
A me resta incomprensibile. Se ne sono andati perché ritengono irriformabile il partito, immagino. Ma anche perché hanno coltivato da tempo una versione molto consolatoria e un po’ mistificante dell’antirenzismo. Loro raccontano la storia di un partito finito nel disastro per colpa di Renzi. Non vogliono ammettere che Renzi è stato la risposta della nostra gente a una stagione di errori e di scelte sbagliate cui tutti noi abbiamo partecipato.
Cos’è per te la politica?
La politica è la grande possibilità di cambiare l’esistente, la strada concreta per non rassegnarsi alle cose che non ti piacciono. In fondo, è un moto che è di tutti noi. Per qualcuno diventa la ragione di vita.
Tu perché lo hai deciso?
Perché volevo cambiare il mondo. Ho ovviamente capito che è più complicato di quanto sembrasse… Avevo 13 anni, sono andato a chiedere la tessera. Mi hanno detto che fino a 14 anni non se ne parlava, ma si poteva fare una deroga se andavo a vendere L’Unità. Andavamo a vendere i giornali nel mio quartiere, un quartiere popolare di La Spezia, e il vero lavoro non era vendere il giornale ma ascoltare i compagni e anche altri, che compravano il giornale anche se non erano del Pci. L’esercizio più importante era ascoltare e interloquire, e poi portare in sezione quanto sentivamo, per elaborarlo politicamente.
Fosse stato oggi, saresti andato a vendere gli articoli di Rondolino…
Anche allora! Perché c’era un giornale della Fgci molto ingraiana e foleniana, si chiamava Jonas, e allora il direttore era Rondolino. Quindi c’è una continuità, dobbiamo sempre vendere articoli di Rondolino.
Forse è per quello che vincono sempre gli altri?
Questo lo lascio dire a te. Devo dire che a me non convincevano perché io ero “destro” e loro erano ingraiani.
Un pezzo della tua corrente, pensiamo a Matteo Orfini, è rimasta con Renzi. È una questione di scommessa sul potere, o invece è una questione di analisi?
È una questione di analisi. Loro continuano a credere che si possa condizionare Renzi in maniera decisiva, che è poi la scommessa da cui partimmo insieme, io credo di no. Perché io credo che si debba ripensare radicalmente il Pd la sua funzione e il suo posizionamento. Non è più possibile pensare di civilizzare il populismo, bisogna sfidarlo, come per certi versi fa Machron in Francia o i verdi olandesi.
Il segretario eletto fa anche il candidato premier?
No, ma anche questa non è una cosa che decido io. Dopo il referendum il premier se tutto va bene è un ruolo che nasce da una coalizione con altre forze di centrosinistra. Difficile davvero credere che il Pd da solo esprima per “diritto” il premier.
Con Pisapia hai parlato? E con Sala, che è l’unico sindaco di centrosinistra che governa una delle prime cinque città italiane?
Guardo con grande interesse a quello che fa Pisapia, mi sembra un tentativo importante. Con Sala parlerò, ho letto con grande interesse la sua lettera a Renzi, ho risposto io anche se era per Renzi. Devo dire che poi mi ha stupito vedere Chiamparino tornare così in fretta all’iper renzismo.
Vuoi vincere, ok. Ma “perdere bene” cosa vuol dire?
Non esiste perdere bene, e io vorrei vincere. Io penso che se non vince la mia impostazione è un male per il Pd.
È ormai notte fonda, permettimi di concludere chiedendoti qualcosa su di te, su chi sei, su cosa pensi del mondo. Credi in Dio?
No. Mi interrogo spesso sulla sua esistenza, e invidio molto quelli che hanno il dono della fede, perché dà una luce diversa all’esistenza. Una delle cose che mi ha toccato di più è stato parlare di detenuti con Papa Francesco. Ho percepito, intuito cosa sia la fede proiettata sull’uomo, cosa sia la forza di quell’esperienza.
Ti manca il tempo per una tua famiglia? Ti pesa non averla?
Si, mi manca. La politica per come l’ho vissuta io ha una dimensione disumanizzante. Ti dà tantissimo, ti forma tantissimo, è un privilegio nel rapporto con e nella conoscenza della condizione umana. Ma ti toglie le forze e il tempo per costruire e coltivare rapporti umani profondi e stabili con le persone.
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