Partiti e politici
Il Partito Democratico non è diviso, Il Partito Democratico ancora non esiste
Poco più di un anno fa, scrivevo un articolo assai franco su cosa pensavo del Partito Democratico, ovvero quella che anche io – come Pierluigi Bersani e tanti altri – considero “la mia casa politica”, luogo dove idealmente dovrebbe risiedere la mia visione del Mondo, almeno a grandi linee. Un’appartenenza che spesso mi viene contestata, sia da alcuni lettori che hanno idee diverse dalle mie, sia (soprattutto) da fieri esponenti di quelle legioni di imbecilli (mi piace sempre citare Umberto Eco quando parlo di loro) che dopo aver letto un titolo non gradito di qualche mio scritto, si prodigano di andare a controllare sui miei profili social chi sono, dove lavoro, chi sono i miei amici, come vesto e dove vado in vacanza, per poi appellarmi con colorite definizioni come “giornalaio”, “prezzolato”, “servo” e ovviamente altre offese non ripetibili scritte il più delle volte in un italiano prossimo all’analfabetismo.
Inutile cercare di spiegare a questi “signori” che tutti abbiamo delle idee nella testa e che l’onestà e la bravura di un giornalista è quella di saper distinguere chiaramente cosa è notizia e cosa è opinione. Il discorso sarebbe assai articolato e richiederebbe una profondità di pensiero inarrivabile per molti di questi soggetti. Mi accontento così di avere una sorta di ruolo sociale, fungendo da “sfogatoio” per molti di loro nella speranza che tanta rabbia repressa si sfoghi davanti a un Pc, un tablet o uno smartphone, restando così virtuale e non producendo azioni violente nelle vite reali.
Scusandomi per la digressione, torno al Partito Democratico, al “partito che non c’è”, diviso tra “vecchia ditta e Leopolda s.p.a” come scrivevo nel titolo di quell’articolo datato 21 settembre 2015. Se dovessi oggi redigere un commento alla direzione nazionale a cui ho assistito ieri pomeriggio, dalla “nervosa” relazione di Matteo Renzi all’evocativo intervento di Gianni Cuperlo, dalle impacciate riflessioni di Roberto Speranza alle urla sguaiate e condite da tanto di imprecazione di Roberto Giachetti, utilizzerei esattamente le stesse parole, abusando del copia/incolla.
Inutile girarci intorno. Tolto il cartello elettorale e un esercito di solisti eletti dai più piccoli comuni fino alla Camera e al Senato, la comunità politica sognata da Walter Veltroni ai tempi del Lingotto è rimasta una sommatoria di donne e di uomini provenienti dalle storie dei due partiti fondatori e l’unica vera amalgama è stata – purtroppo – quella delle cattive abitudini dei vecchi baronati post comunisti e post democristiani. E i pezzi di società che avrebbero dovuto trovare una “casa comune” in quella comunità, l’hanno guardata – e continuano a guardarla – con sospetto, con l’idea di qualcosa di incompiuto e destinato prima o poi a finire. Non è un caso che la parola “scissione” risuoni periodicamente nelle stanze del Nazareno, oggi per le divisioni sul referendum costituzionale, ieri su altre questioni.
Ma lo stentare del Pd è anche figlio di fenomeni mondiali, dal cavalcare di nuove forme di protezionismo ai populismi figli dell’impoverimento delle società occidentali. I partiti sono ormai dei contenitori di leader più o meno longevi e i loro supporter somigliano sempre più a frequentatori delle curve degli stadi che a persone libere che portano avanti delle idee o semplicemente dei ragionamenti figli di un pensiero. Notavo proprio ieri la preoccupante somiglianza tra alcuni “tifosi” del Pd e i “leoni da tastiera” agitati da leghisti e grillini, con la differenza che molti degli insulti più violenti erano rivolti a stessi esponenti del PD.
Vent’anni di berlusconismo hanno portato a questo: alla personalizzazione esasperata di ogni cosa, al definitivo sdoganamento della maleducazione e della volgarità nei palazzi del potere, a una società dove prepotenza viene confusa con risolutezza, dove la ragione è di chi urla più forte, anche se non ha nulla da dire.
Il Partito Democratico ancora non esiste e i toni della discussione interna sulle riforme ne sono solo l’ultima riprova. Tra gli eletti, i dirigenti e i semplici militanti (che sono sempre meno) la discussione – neanche troppo dissimulata – è tra chi deve essere “rottamato” e chi è visto come l’usurpatore di una gloriosa storia. Il timore, per chi come il sottoscritto sperava e continua a sperare in una nuova appartenenza a prescindere dagli interpreti stagionali, è che la contesa tra “Vecchia Ditta” e “Leopolda s.p.a.” si possa concludere all’italiana: con i libri in tribunale…
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