Partiti e politici

Il paese normale di Renzi, in cui uno su due non vota

31 Maggio 2015

Arriviamo così a un punto di normalità occidentale. Il voto, sempre sbattuto in prima pagina come un appuntamento epocale e atteso come una verifica della tenuta di equilibri politici e politicisti, appassiona e coinvolge sempre meno i cittadini aventi diritto che sarebbero, dopotutto, i veri protagonisti. Il risultato, il primo risultato sicuro di queste elezioni amministrative del 31 maggio 2015, è quello del record negativo di affluenza. I dati indicano che per le Regionali è andato a votare un elettore su due: 57,15% in Veneto, 50,67% in Liguria, 55,42% in Umbria, 51,94% in Campania, 51,15% in Puglia, con Toscana e Marche poco sotto il 50 per cento.

È vero, sono elezioni amministrative dimezzate, che hanno riguardato solo 7 Regioni e una porzione minoritaria, seppur significativa, di Comuni (742). E sono elezioni che arrivano nel mezzo di un ciclo politico, quello guidato da Matteo Renzi, completamente nuovo  rispetto a quello delle legislature amministrative conclusesi con il voto di oggi.

E tuttavia, il dato sull’affluenza resta chiaro e consolida e approfondisce una tendenza che già si era manifestata un anno fa, in occasione delle scorse elezioni europee che sancirono col 58% di affluenza un chiaro segnale di distacco dalla partecipazione politica, e col 40% dei consensi un inequivocabile segno di consenso al neonato governo Renzi. Un passaggio intermedio non trascurabile, peraltro, si ebbe lo scorso novembre, come le elezioni regionali della fu rossa Emilia e Calabria, e in quel caso l’affluenza si fermò ben lontano dal 40 per cento.

La tendenza alla distanza dalla partecipazione elettorale e politica, in questa occasione, si radicalizza ulteriormente e in questa occasione il tasso di astensionismo raggiunge percentuali sinora sconosciute per il nostro paese. Il dato non va drammatizzato, non significa la fine della democrazia rappresentativa in Italia, ma va preso sicuramente sul serio e compreso nella sua dimensione profonda. Perché è vero che queste percentuali di affluenza sono del tutto fisiologiche nelle democrazie “mature”: ma alti tassi di astensionismo non significano, di per sé, il raggiungimento della maturità. E se sopraggiungono in pochi anni, è lecito per tutti e doveroso per chi fa politica farsi tutte le domande e cercare ogni risposta.

La centralità della politica per la definizione della propria identità di cittadino e, perfino, antropologica, degli elettori italiani è probabilmente finita con la fine completa del ciclo berlusconiano. Il consolidamento di un’era in cui Berlusconi non è più asse del consenso e del dissenso mostra, impietosamente e a dispetto di ogni retorica, quanto la sua sola presenza come protagonista abbia funzionato, per due decenni, come potente catalizzatore di partecipazione democratica. Dei suoi supporter e dei suoi avversari. Di chi cantava “meno male che Silvio c’è” e di chi raccontava che da un giorno all’altro sarebbe stato necessario seguire le orme di padri e nonni lunghi o sentieri di montagna che furono dei partigiani. Ora che lui non c’è più, ogni operazione di nostalgia mostra la propria anima patetica di macchietta. La continuità antropologica tra un certo renzismo e il berlusconismo non basta a scaldare gli animi degli elettori né dei lettori e questo – vogliamo dirlo senza finzioni – da queste parti non dispiace. Abbiamo di fronte una fase politica con molti limiti e venature di mediocrità e approssimazione preoccupanti, ma possiamo parlarne laicamente e senza vederci chiamati, ogni volta, a giuramenti di appartenenza e purezza. Come noi la pensano gli elettori, evidentemente, che nel pieno di un’elezione amministrativa piazzata nel cuore dell’unico ponte di primavera hanno deciso in piena coscienza il da farsi.

Difficile trascurare, pensando al poco trasporto suscitato da questo voto, i fattori contingenti e la perenne, non-contingente, questione morale. In Campania il Pd candida un politico di razza come Vincenzo De Luca, gravato però da una condanna che, a rigor di legge, non è eleggibile per il ruolo al quale è candidato. La legge [Severino] è una cosa seria? Probabilmente no, tanto che lo candidano lo stesso. Gli ultimi giorni e la polemica sui cosiddetti “impresentabili” sono serviti a distrarre tutti da un dato di sostanza: il partito di governo ha accettato la candidatura di un suo esponente, pur incompatibile con la legge dello stato in vigore. I primi dati, peraltro, ci dicono che la Campania è l’unica Regione in cui la tendenza alla disaffezione rispetto al voto conosce un argine, ed anzi il voto pare in lieve crescita rispetto alle europee.

Anche la Liguria, con le polemiche mai chiarite sulla regolarità delle primarie che premiarono Raffaella Paita, e la susseguente candidatura alternativa del civatiano Luca Pastorino, non deve avere dato l’impressione di un posto dove votare sia bellissimo, e dove soddisfare il dovere civico di votare fosse di per sè sufficiente a superare il diritto (sacrosanto) di non farlo.Non c’è più insomma la chiamata alle opposte armi dell’età berlusconiana, e la politica del dopo non scalda gli animi, i cuori, le teste.

Ci sono poi considerazioni di dettaglio. Per le Regioni gli italiani votano meno e meno volentieri che per i Comuni. È così anche questa volta. Forse, sarebbe il caso di ripensare un’architrave istituzionale – frutto avvelenato di vent’anni di leghismo assecondato acriticamente dalla sinistra pre-renziana – che proprio alle Regioni attribuiva una centralità politica e amministrativa spropositata. In questo senso, invece di assecondare un altro populismo – fingendo di abolire le province, e abolendo in realtà solo gli organi elettive – sarebbe (stato) meglio prendere sul serio una domanda che gli italiani hanno preso sul serio prima dei loro politici: a cosa servono queste Regioni, oltre a generare scandali e problemi di attribuzione?

Infine, una nota moderatamente affettuosa la merita il presidente del Consiglio, segretario del Partito democratico e protagonista nonché principale sceneggiatore delle cronache politiche. Parliamo di Matteo Renzi, certo. Ha messo le mani avanti, dicendo che non era, questo, un referendum su di lui. Ha già pronta – come sempre – la corretta interpretazione dei dati, ovviamente a proprio vantaggio. Nel silenzio del suo cuore, lontano da occhi indiscreti e da falsi amici, senza bisogno di dare la colpa a minoranze e gufi, ponga occhio a un dato. Potrebbe restare agli atti come il politico che ha sancito, definitivamente, il disinteresse degli italiani per la politica. La propaganda, per la quale è dotatissimo, chiede di rimuovere il dato. La buona politica, quella che lui promette un paio di volte la settimana, impone il contrario. Scelga lui da che parte stare: a noi, francamente, la scelta sembra obbligata.

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Vai al sito del Ministero degli Interni sulle Elezioni 2015 per i dati di dettaglio su affluenza e scrutini

 

Nella foto di copertina, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi con il senatore di Forza Italia Denis Verdini 

 

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