Il disastro delle nostre classi dirigenti, tra elitismo e vigliaccheria
L’esito del referendum sulla Brexit sembra avere scatenato come mai prima d’ora un dibattito che si potrebbe riassumere con questa domanda: perché un sottoproletario ignorante bevitore di birra Tesco dovrebbe contare come un dottore in antropologia culturale amante del Primitivo biodinamico? Perché le scelte relative al “bene comune” dovrebbero essere prerogativa dei cretini (o presunti tali)?
Di fronte al consenso che per vent’anni gli Italiani hanno espresso a Silvio Berlusconi, di fronte ai resti della classe operaia che vota Lega, le teste d’uovo del nostro Centrosinistra se la prendevano generalmente col potere corruttore delle televisioni dell'(ormai ex) Cavaliere. Certo, la voce più autorevole dell’antiberlusconismo, Giovanni Sartori, epigono liberal di Vilfredo Pareto, si riferisce alla democrazia come a «un sistema a finzione maggioritaria prodotto e salvaguardato da un reggimento minoritario», ma nessuno all’interno dell’Ulivo avrebbe mai avuto il coraggio di mettere pubblicamente in discussione il suffragio universale.
In questi giorni post-Brexit, la critica del principio “una testa un voto” sta invece diventando argomento popolare anche nei bar, persino – forza della propaganda – sulle bocche di tanti disgraziati non facenti parte di alcuna élite. Una troppo rapida scorsa alla demografia e alla sociologia dell’elettorato britannico, unita alla rabbia – condivisa certamente dal sottoscritto – per il risultato, hanno fatto emergere un incredibile sciocchezzaio che si regge in parte sull’auctoritas accademica di vari studiosi di scienze sociali e politiche.
Di particolare rilievo è il tema della supposta centralità del fattore anagrafico nel voto referendario. In buona sostanza, i vecchi avrebbero consapevolmente sabotato con il loro voto il futuro dei giovani europei. Peccato che in Regno Unito, dove il bilancio demografico è ancora in attivo, a differenza che in Italia, i due terzi dei giovani nella fascia 18-24 anni siano semplicemente rimasti a casa, e peccato siano piuttosto giovani anche i razzisti che in questi giorni hanno festeggiato la loro autoevirazione, pardon, la loro vittoria malmenando i cittadini musulmani o vandalizzando il centro culturale polacco di Londra.
Non ha importanza, la macchina retorica si è già mossa, il messaggio da diffondere è: se l’UE crollerà sarà per colpa dell’egoismo dei vecchi. Dalle nostre parti – un Paese anziano in cui le pensioni dei genitori sostituiscono il welfare assente – una simile stupidaggine è perfettamente funzionale sia al tentativo di far scoppiare una guerra intergenerazionale attorno al tema delle pensioni che alla generica ideologia giovanilista della “rottamazione”. Ecco quindi il (giovane) demografo-democratico Alessandro Rosina proporre una riforma del suffragio nel senso di un voto ponderato, per classi d’età, appunto. Il voto dei giovani, futuro del Paese, dovrebbe cioè contare più di quello degli anziani.
Ma dal momento che il criterio guida è l’aspettativa di vita, perché non penalizzare, oltre a quello dei vecchi, anche il voto dei fumatori, dei grassi, dei cardiopatici, dei disabili? E, già che ci siamo, perché non tornare direttamente alla democrazia censitaria? Non si ammalano forse più facilmente, i poveri, non muoiono forse prima dei loro coetanei benestanti? Il profilo dell’elettore ideale corrisponde a quello di un giovane ricco e acculturato. Perché dunque non limitare il voto agli allievi dei soliti sei o sette licei classici di Roma e Milano – nati del resto come vivai delle élite del Bel Paese? Sarebbe certo un po’ più semplice che non istituire complicate “patenti del voto” e infinitamente più semplice che andare alla radice del problema attraverso un rilancio dell’istruzione di massa e della cosiddetta “educazione civica”.
Per nostra fortuna, però – se non altro allo stato attuale – la tentazione delle oligarchie di costruire un corpo elettorale ideale perfettamente omologo a sé rimane irrealizzabile senza l’uso della forza. Non bastano cioè, per citare Machiavelli, le volpi, ci vogliono i leoni. Ma nell’Occidente uscito dalla Seconda guerra mondiale i leoni sono stati giustamente banditi, son rimaste soltanto delle volpi non sempre all’altezza della loro specie. E che genere di volpi sarebbero David Cameron e Boris Johnson, impegnati in una loro personale contesa per la leadership dei Tories a spese delle loro stesse carriere politiche e del futuro di un intero continente?
Il fatto che questi due imbecilli, giovani avanzi di aristocrazia educata a Eton abbiano causato un simile danno la dice lunga su quanto le élite siano preferibili alla massa. Come se all’interno delle stesse élite dalla circolazione interrotta non esistessero conflitti, come se gli interessi diversi, anche in un mondo apparentemente depoliticizzato non si perpetuassero come scontri tra cartelli economici o come lotte individuali per il potere. «Se i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli questi benedetti elettori!», così Corrado Guzzanti – che mi trovo a citare sempre più spesso ultimamente – agli albori della cosiddetta Seconda Repubblica satireggiava un fenomeno sul quale gli studiosi hanno riempito centinaia di migliaia di pagine e che va sotto il nome di “crisi della rappresentanza”.
Sarà bene ricordare come le democrazie occidentali siano chiamate appunto rappresentative in quanto i loro cittadini esprimono la loro volontà attraverso l’elezione di rappresentanti. Qui sta il nodo centrale di tutta la vicenda della Brexit e non solo. Di fronte a crisi troppo grandi e a problemi di enorme complessità, gli inadeguati rappresentanti dell’establishment smettono semplicemente di rappresentare. Come ha ben sintetizzato Fabrizio Barca, con referendum sconsiderati come quello sulla Brexit, gli eletti rinunciano a fare il lavoro per cui sono stati eletti (e pagati), mettendo in atto una vera e propria «frode democratica».
Il popolo – uno dei soggetti più ambigui della storia del pensiero politico – è lasciato in balia di agitatori senza scrupoli, di seminatori d’odio e di paura e di media servili o disperati alla ricerca di inserzionisti. Alle classi più deboli, lasciate senza difese economiche e senza strumenti culturali – cioè senza quella consapevolezza minima che è vitale per la democrazia – è quindi lasciato il fardello delle decisioni esiziali. A coronamento del tutto, la precisa volontà sia da parte dei liberalconservatori che della Sinistra di sistema di perseguire la cosiddetta disintermediazione, eliminando proprio in uno dei momenti più complessi della storia del mondo moderno tutte le cinghie di trasmissione possibili tra cittadini e ceto dirigente.
Uno scenario in cui la democrazia si riduce all’atto del voto – puro momento di ratifica di decisioni già prese dai tecnocrati – e nel quale i partiti, in quanto luoghi di discussione e composizione dei conflitti, risultano d’impiccio, perché tutto ciò che serve è una serie di comitati elettorali. In questo senso, se la tendenza rimarrà costante, sarà sempre più difficile distinguere ciò che rimarrà dei grandi partiti di massa di centrodestra o centrosinistra dai movimenti populisti nati precisamente con l’obiettivo di distruggere la democrazia rappresentativa. L’uno è il populismo irresponsabile dei parvenu, l’altro il populismo vigliacco delle oligarchie in crisi. Inutile aggiungere come, senza una vera alternativa democratica ad entrambi, il destino del progetto europeo sia segnato.
l’immagine di copertina è di secretlondon123
2 Commenti
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I referendum saranno pure “sconsiderati”, ma l’affluenza a quello su Brexit dimostra che, quando si tratta di decidere su un tema specifico, gli elettori partecipano. In Italia il referendum sulle trivelle, quesito “residuale” propagandato dal governo e da tutti i media come “inutile” con un esplicito invito all’astensione, ha mobilitato 15 milioni di persone; al contrario, le recenti amministrative si sono concluse in molte città con affluenze vicine al 50% o anche molto meno (Napoli).
Questa disaffezione degli elettori verso la scelta dei propri rappresentanti e amministratori è probabilmente dovuta all’idea (giusta o sbagliata che sia) che “tanto sono tutti uguali”; invece, il voto “binario” su un argomento preciso viene ancora percepito come in grado di “cambiare le cose”.
Senza dubbio ci sono anche elettori che utilizzano i referendum in modo strumentale, per mandare un “segnale politico” contro il governo (Cameron o Renzi); occorrerebbe allora chiedersi perché il referendum appaia un mezzo più idoneo di altri tipi di elezioni per manifestare il proprio dissenso.
Anziché chiedersi perché gli elettori non si sentono più adeguatamente rappresentati, i politici preferiscono
Era una mattina d’estate, credo fosse il 1948 o ’49, avevo sette-otto anni. Mio nonno materno, avvocato Paolo Di Bello del Foro di Napoli mi portò con sé a Torre Del Greco, una splendida cittadina alle falde del Vesuvio. Mio nonno possedeva una villetta in campagna, contrada Cavallo, poco distante da una proprietà di Enrico De Nicola. Nonno Paolo era un fraterno amico di De Nicola, primo Presidente della Repubblica. Quella mattina, mio nonno e De Nicola si incontrarono, e mentre parlavano tra di loro, il Presidente mi accarezzò il capo. Ricordo ancora la tenerezza di quel gesto. Chiesi a mio nonno: chi è questo signore? Rispose: è il primo galantuomo d’Italia, è il nostro Presidente… e non approfitta del suo potere. Pensa che paga di tasca propria i francobolli delle lettere che invia a parenti, amici, estimatori. Sono abituato a non generalizzare mai né a fare di tutta l’erba un fascio! Ma basta questo aneddoto per stabilire in quale baratro è oggi precipitata la nostra classe politica, e la cosa peggiore è che sembra non ci sia via di scampo. Le “mele marce”, invece di usare il loro potere per il bene della comunità, lo usano principalmente per il loro tornaconto e per gli interessi di parenti e di amici. Con un’aggravante: lo fanno con sicumera e tracotanza. Ho settantacinque anni. Sono stanco e deluso. Non ho il tempo di “affezionarmi” ad una “figura istituzionale”, che all’apparenza è tutta protesa a lavorare onestamente e per il bene pubblico, che te la trovi inquisita per corruzione, favoreggiamento e quant’altro di poco chiaro. Mi sento tradito, umiliato, offeso; arrabbiato nei confronti di una classe politica che, quotidianamente, tradisce l’Italia che si affida, che crede, che lavora onestamente, che opera con amore e con dedizione. Come siamo caduti in basso! Io non voglio vivere dove comanda il “dio-denaro”. Non voglio vivere in un territorio dove ogni diritto del cittadino diventa una concessione, dove il potere è arrogante e corrotto, dove il mite è calpestato, l’onesto deriso, il galantuomo imbrogliato! Non voglio vivere – qualsiasi sia il tempo che mi resta – dove regnano incontrastate la volgarità, la scostumatezza, la sguaiataggine, l’ipocrisia, il malaffare! Vorrei vivere, non dico ” nell’isola felice”, ma almeno in un posticino dove chi ha speso tutta la sua vita versando il suo pur modesto contributo per migliorare la società, possa trovare i valori dell’educazione, dell’onestà, della correttezza. Dove l’onore vale ancora qualcosa e non viene barattato per una squallida miserabile mazzetta di vile denaro!
Raffaele Pisani
raffaelepisani41@yahoo.it