Partiti e politici
Il dilemma della sinistra
Lo so, è diventato ormai un luogo comune, qualcosa che lui stesso rifuggiva come la peste, ma non si può fare a meno di citare l’interrogativo del grande Giorgio Gaber, parlando delle politiche del Pd e delle critiche di chi lo ha abbandonato: “che cos’è la destra? cos’è la sinistra?”. Il ventilato accordo tra le forze di sinistra e di centro-sinistra ruota tutto attorno a questa questione: il Partito Democratico a trazione renziana è (ancora) un partito che ha a che vedere con la sinistra, oppure si è ormai totalmente distaccato da quell’area, da quella visione del mondo?
Luca Ricolfi, sul Messaggero del 19 novembre, ha egregiamente riassunto i termini della questione tra Pd e le forze politiche alla sua sinistra, che lui etichetta con l’acronimo di SP (Sinistra Purosangue), sottolineando come le difficoltà di una unione programmatica riguardino nello specifico tre elementi: il jobs act, le tasse e i migranti. La SP vuole reintegrare l’articolo 18, vuole aumentare la tassazione quasi unicamente per i ricchi ed è in disaccordo con Minniti sulla “gestione” dell’immigrazione. Tre richieste che pare sia difficile vengano accettate dal Partito Democratico perché, secondo SP, il Pd non è appunto più un partito di sinistra. Ergo: è altamente improbabile che alle prossime elezioni vedremo una coalizione che riunisca i separati in casa, lasciando di fatto maggior probabilità di vittoria al centro-destra unito.
Ma cos’è dunque la sinistra, oggi? E rappresenta effettivamente un punto di riferimento delle fasce più deboli, più povere della popolazione? Sono ormai più di vent’anni che, se andiamo a vedere qual è l’elettorato più vicino ai partiti di sinistra, come il Pds o i Ds di un tempo, scopriamo come esso sia composto prevalentemente dai ceti più istruiti, meno “bisognosi”, con un reddito fisso assicurato (impiegati, soprattutto statali, insegnanti, ceto medio produttivo, pensionati abbastanza garantiti).
Il famoso paradosso pronunciato a metà degli anni Novanta da D’Alema (“la Lega è una costola della sinistra”) sintetizzava chiaramente la situazione che si stava producendo nel paese. Gli operai del nord, in particolare quelli delle piccole imprese, gli artigiani a rischio, i commercianti meno tutelati, gli abitanti delle zone più periferiche delle grandi città, tutte queste fasce di popolazione trovavano la loro sponda elettorale soprattutto in Berlusconi e in Bossi, disdegnando le politiche e le parole d’ordine di Pds e di Rifondazione Comunista. Anche con la nascita del Pd, prima di Veltroni, poi di Bersani e infine di Renzi, la situazione non è per nulla mutata da allora. Semmai, il Movimento 5 stelle si è aggiunto ai tradizionali partiti di centro-destra nella capacità di diventare riferimento di quella parte di cittadinanza impaurita dai possibili sviluppi della nostra società.
Salvini, Berlusconi, Meloni, lo stesso Di Maio hanno buon gioco a sottolineare lo scollamento esistente tra le ricette della sinistra (e soprattutto della SP) e i sentimenti della popolazione meno economicamente fortunata. Se la sinistra non si reinventa parole d’ordine nuove, che tengano maggiormente conto delle opinioni e delle paure di quegli elettori, è difficile che si possa erigere a loro punto di riferimento. Che piaccia o meno, la “ricetta Minniti”, se così si può chiamare, è vista quasi più positivamente dai cittadini più deboli, che votano oggi per il centro-destra o per il M5s, che non da quelli di sinistra o di centro-sinistra.
Il problema dunque è presto detto: se le politiche della SP non piacciono agli elettori meno forti dal punto di vista socio-economico, è corretto che la sinistra diventi sempre più punto di riferimento dell’elettorato più garantito? E si può chiamare ancora sinistra, privata del suo naturale referente elettorale? Un bel dilemma.
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