Partiti e politici

E se la scissione del Pd convenisse a tutti?

16 Febbraio 2017

Se le dichiarazioni ufficiali evocano termini catastrofici e definiscono l’ormai più che probabile scissione del Partito Democratico come qualcosa di drammatico e da evitare a tutti i costi, le voci che si rincorrono sul “corridoio dei passi perduti” sono di ben altro tono e fanno pensare che in realtà, specialmente ipotizzando un’armonizzazione delle leggi elettorali di Camera e Senato con una riduzione dello sbarramento a Palazzo Madama, la divisione di quello che oggi è il partito di maggioranza relativa convenga praticamente a tutti, dentro e fuori da esso.

La fine del bipolarismo

Iniziamo dai cosiddetti “conti della serva”, partendo dall’assunto che dal 2013 l’Italia non è più un paese dove il voto si divide in larga parte su due grandi poli. L’avvento del Movimento 5 Stelle ha infatti scritto la parola fine su un ventennio che era stato caratterizzato da una forzata polarizzazione imposta in parte dalla figura egemone di Silvio Berlusconi, in parte dalle leggi elettorali, attraverso lo strumento del premio di maggioranza. E se anche i partiti trovassero un difficile accordo in Parlamento su un “Mattarellum 2.0” che preveda un contenuto premio di coalizione, la stagione dei cento parlamentari di scarto per un voto in più alle urne è da ritenersi definitivamente conclusa. Questo quadro favorisce la frammentazione, specie se – come vorrebbero in molti, pur negandolo pubblicamente – l’impianto delle leggi elettorali di Camera e Senato dovesse assestarsi sul sistema proporzionale e quindi favorire alleanze post-voto e grandi coalizioni.

Il quadro frammentato renderebbe più fragili i governi e i leader, ma porterebbe a un aumento dell’affluenza al voto e non è detto che abbrevierebbe le legislature. E se la moltiplicazione delle liste riproporrebbe il ciclico tema dell’instabilità politica italiana, quest’ultima non sarebbe il più grave dei problemi in un’Europa dilaniata dall’ascesa di forze estremiste e sovraniste, che deve fare i conti con la Brexit e con le crisi economiche dei paesi membri. Paradossalmente, il probabile balletto di presidenti del consiglio e di ministri nel belpaese potrebbe essere assai meno dannoso di una eventuale vittoria di Marine Le Pen in Francia. Il ritorno al proporzionale porrebbe fine a uno dei fondamenti del Partito Democratico: la “vocazione maggioritaria”. Finita quella, l’esigenza di tenere forzatamente tante linee di pensiero dietro un unico simbolo verrebbe meno.

Il Pd di oggi e i due possibili partiti di domani

Nel Partito Democratico, la convivenza tra Leopolda S.p.a. e Vecchia Ditta sembra ormai quasi impossibile. Molto dipenderà da cosa accadrà in questo lungo weekend in cui si riunirà prima la minoranza e poi tutto il partito in assemblea nazionale. Da quanto Matteo Renzi vorrà realmente spingere sull’acceleratore per arrivare a elezioni anticipate dopo un congresso lampo sarà chiaro l’esito delle tante mediazioni che si stanno svolgendo in queste ore frenetiche per scongiurare la frattura definitiva. E se la minoranza interna appare oggi confusa e divisa (attualmente ha tre candidati in campo), il fronte dell’ex premier non è granitico come vorrebbe sembrare, con il ministro della Giustizia, Andrea Orlando (già critico con la linea del segretario durante l’ultima direzione nazionale) che ha messo in minoranza il presidente dei dem, Matteo Orfini, nella corrente dei “Giovani Turchi” (40 parlamentari a 12, secondo i rumors) presentando un documento che rilancia la proposta di una conferenza programmatica da svolgersi prima del congresso (stessa richiesta della minoranza bersaniana) per tenere unito il partito. Secondo alcuni, il guardasigilli starebbe pensando addirittura a una sua candidatura e l’ipotesi sarebbe ben vista sia dagli ambienti renziani (che sfaterebbero uno degli argomenti della minoranza: il congresso farsa) che da esponenti di primo piano come il ministro delle Politiche Agricole, Maurizio Martina, e l’ex sindaco di Torino, Piero Fassino, che in queste ore sarebbero i più attivi mediatori tra le parti. C’è poi chi cerca di portare la discussione sui temi fondativi del partito, come Roberto Morassut che propone la stesura di un documento per un “programma fondamentale” di grande respiro strategico che  aggiorni la carta dei valori del partito indicando una base comune per contrastare il rischio di “separazioni drammatiche”. Secondo Morassut, il Pd dovrebbe cambiare addirittura la sua forma, sciogliendosi nel “Movimento dei Democratici”.

Ma al di là della complessa e mutevole geografia interna del Pd (argomento da addetti ai lavori e anche un bel po’ noioso), una sua eventuale scissione potrebbe addirittura far raccogliere più voti ai due partiti che ne uscirebbero, indebolendo persino i concorrenti, dal centrodestra al Movimento 5 Stelle. Matteo Renzi ad oggi è sostenuto dalla maggioranza degli elettori potenziali del Pd; almeno dai due terzi, su questo ci sono pochi dubbi. Ciò che resta, da chi ha votato Pd “malgrado Renzi”, a chi non lo ha più fatto (i casi eclatanti di Roma e Napoli, ma anche Milano e Torino) finendo nell’astensione o addirittura votando a sfregio il partito azienda di Grillo, potrebbe trovare nell’Ulivo 3.0 – che per convenzione chiameremo Bersani&Partner – una “croce sulla scheda” che lo rimetta in sintonia con la sua visione del Mondo e gli permetta al contempo di tornare a guardare negli occhi i parenti stretti, senza dover abbassare lo sguardo durante i pranzi e le cene delle feste comandate. Ovviamente molto dipenderà da come si presenterà il nuovo soggetto: se apparirà agli occhi degli elettori come “La Cosa 47” avrà vita breve e seppellirà definitivamente le già precarie carriere politiche dei promotori, se invece indovinerà lo “storytelling” e soprattutto se saprà tener dentro tutti i frammenti attualmente sparsi, da Pisapia a Civati, arrivando a ciò che resta di Sel, potrebbe ottenere un risultato di tutto rispetto. Una cosa è ormai certa: un discreto numero di elettori che alle politiche sceglierebbe un qualsiasi partito di centrosinistra, Matteo Renzi non lo voterebbe più neanche se domenica aprisse l’assemblea dem presentandosi con un maglione rosso, dei baffi finti e aprendo la sua relazione cantando l’Internazionale in cinese vernacolare con tanto di pugno chiuso.

Semplificando dunque con una rozzezza quasi grillina, si potrebbe dire che sommando i voti del PdR e quelli di Bersani&Partner, si supererebbero quasi certamente quelli dell’attuale Pd, quindi, in termini numerici, la scissione converrebbe a entrambi. Renzi guiderebbe una lista del 20/25% finalmente sotto il suo controllo totale e senza noiosi secchioni a dar lezioncine (almeno in un primo momento, il ragazzo è molto abile nell’inimicarsi i suoi compagni di viaggio e non ha certo fra i suoi punti di forza la diplomazia) e quelli di Bersani&Partner si ritroverebbero in un nuovo partito dove poter litigare con garbo su chi è il “migliore” senza essere bulleggiati da quelli dell’ultimo banco, pronti a dar loro delle “facce da culo” a ogni ridondante volo pindarico sui cavilli statutari. Tutto ciò sarebbe ancor più motivato se nelle leggi elettorali di Camera e Senato restassero i capilista bloccati (cosa assai probabile), perché la composizione delle liste pesa (e come se pesa…) in tutta questa vicenda.

Sul piano prettamente politico, l’esigenza di tutto il fronte del centrosinistra (escluso Renzi) è quella di riallacciare i rapporti con una serie di mondi che si sono sentiti penalizzati dai mille giorni di governo dell’ex premier, dagli insegnanti agli impiegati statali, dai sindacati a ciò che resta degli intellettuali radical-chic. Si tratta dell’antico “zoccolo duro” della sinistra, indubbiamente minoritario ma fondamentale per portare a casa qualunque risultato. Se Bersani&Partner riusciranno a rappresentare quei mondi (e magari non solo quelli), potrebbero farsi portatori delle loro istanze e imporre dei punti di programma a un ormai quasi scontato prossimo governo di larghe intese, persino se a guidarlo fosse l’odiato leader di Rignano sull’Arno.

Allargando il campo, il nodo politico che le forze progressiste non riescono più a sciogliere (in Italia, in Europa, nel Mondo…) è come rappresentare e sanare le nuove e variegate sofferenze del pianeta, ridando speranza e ragion d’essere non più solo agli ultimi, ai penultimi e ai terzultimi, ma anche a chi si trova in mezzo e sta per cadere. Aspettando la nascita di un nuovo Marx, che riscriva su un tablet la via da seguire e la posti su Facebook, ciò che al momento potrebbe funzionare è una mediazione di vecchie e nuove ricette, contrattate da chi rappresenta le varie parti.

Ma ci sono anche degli effetti collaterali (e poi basta parlare di Pd…). Se si arrivasse alla scissione, nessuno dei due soggetti potrebbe verosimilmente ambire ad essere il partito di maggioranza relativa. Considerando anche l’ipotesi di un risultato assai deludente per Bersani&Partner (4-6%), il PdR ne uscirebbe sufficientemente azzoppato per raccogliere meno consensi del M5S e persino del centrodestra se quest’ultimo dovesse correre unito. Un problema però relativo, perché dopo le prime doverose consultazioni, sarà chiaro a tutti e in primis a Mattarella (salvo improbabili colpi di scena), che gli unici partiti verosimilmente disposti a formare un governo di larghe intese saranno quelli che non manderanno i loro eletti alle prime sedute delle aule parlamentari “armati” di apriscatole (così, per far capire il concetto…).
Infine, ci sarebbe una questione quasi “sentimentale”. Il fallimento del sogno del Lingotto con annesse facce intristite delle icone che affollarono quel variegato “pantheon”, da Kennedy a Mandela, da Berlinguer a Bob Dylan, su cui fu apposto il simbolo del Pd. Anche questo è però un finto problema. Come molti esponenti dem ripetono a ragion veduta ormai da anni, la fusione fredda fra Ds e Margherita non ha mai prodotto un vero pensiero terzo, qualcosa di identificabile in una società italiana in continua mutazione. Il cartello elettorale “Pd” è ancora oggi un contenitore dal contenuto indefinito, che ha ereditato i pregi, le persone, le liturgie e sopratutto i difetti dei partiti che confluirono in esso. Brutalizzando forse oltremodo, il senso di tristezza che può provocare un’interruzione di gravidanza non sarà mai paragonabile allo sconforto per la morte di un genitore. Con buona pace dei CattoDem di più stretta osservanza.

Il centrodestra e i suoi leader

Silvio è anziano e un po’ acciaccato, anche se pare che fino a tre mesi fa avesse ancora contatti con avvenenti signorine nel fiore degli anni. Rispetto per l’ex cavaliere, ma è probabilmente arrivato per lui il momento di fare un passo indietro cedendo ad altri lo scettro della leadership del centrodestra, ritagliandosi il ruolo di “padre nobile” e lavorando nell’ombra alle strategie senza esporsi. Su tutto il resto sono affari suoi, compresi gli eventuali risvolti penali. In questo campo la possibile scissione del Pd risolverebbe non pochi problemi. In primo luogo, scongiurerebbe l’ipotesi di dover creare un “listone” con tutti dentro (o quasi…) per risultare competitivi. Oggettivamente, anche al centrodestra conviene presentarsi alle urne diviso, perché le larghe intese del post elezioni potrebbero non coinvolgere tutte le sue anime, specie se si tratterà di scendere a patti con il Pd (unito o scisso) che – malgrado qualcuno affermi che destra e sinistra non esistono più… – su temi chiave come l’immigrazione, l’Europa e l’economia nazionale, è totalmente incompatibile con le forze lepeniste (Lega e Fratelli d’Italia). Il ruolo che vorrà giocare il partito di Berlusconi sarà pertanto quello di forza moderata, che sul più bello tirerà fuori espressioni come “responsabilità nazionale” o”governo di unità” per bocca di Renato Brunetta. Con loro non ci si annoia mai.

Tra l’altro, se i recenti sondaggi fossero veritieri, non è affatto scontato che l’ipotetico Polo delle Libertà 3.0 sia condannato ad arrivare terzo. Secondo gli analisti è l’unico schieramento che non perde consensi, anzi tende a guadagnarne. Se risolvesse in tempi rapidi la questione del leader, magari trovando un accordo su una figura autorevole, rispettata e telegenica come il governatore del Veneto, Luca Zaia, non è escluso il colpo di scena. A quel punto occorrerà far scorta di pop corn nei giorni delle consultazioni al Quirinale per capire chi tra Pd (o PdR e Bersani&Partner) e Movimento 5 Stelle sarà disposto ad accompagnarsi a Palazzo Chigi con Berlusconi, Salvini e Meloni.

Una cosa è certa: se il centrodestra sarà di nuovo in pista, la possibile scissione del Pd rappresenterà per lo schieramento conservatore/fascioleghista un’opportunità per pesare di più sullo scacchiere e per poter giocare su più tavoli dopo le elezioni. Comunque andrà, Berlusconi potrebbe dire la sua anche sui primi passi della Terza Repubblica, chiudendo in bellezza la sua controversa e tormentata esperienza politica. Dopo il Milan degli anni d’oro, il Telegattone, Uan di “Bim Bum Bam” e il Tenerone, si produrrebbe l’ultimo fotogramma dello spot che saluterà la sua ascesa verso l’Ade a reti unificate, in un tripudio di vedove coi tacchi a spillo e riti propiziatori.

Il Movimento 5 Stelle

Concludiamo con il partito di proprietà della Casaleggio Associati e gestito dal comicoleader Beppe Grillo. Per i pentastellati la scissione del Pd è indubbiamente una gran bella notizia, ma non certo perché questo li porterebbe al governo del paese. L’impressione è che al netto dei proclami sull’obiettivo “40%”, Grillo e i suoi sappiano bene che ci potrebbero volere anni per costruire una classe dirigente in grado di guidare il paese, ma soprattutto – per chi guadagna consensi e “click” soffiando sulla rabbia sociale dei più disagiati – non è detto che sia quello il punto di arrivo.

La disastrosa esperienza di Roma, dove tra inchieste della magistratura, cacciate e dimissioni, il sindaco Virginia Raggi non riesce nemmeno ad avere una giunta al completo dopo otto mesi di governo, erode – seppur lentamente – il consenso del Movimento, dimostrando ogni giorno al Mondo che l’uomo qualunque – se non adeguatamente formato e indirizzato – non è in grado di gestire la cosa pubblica. C’è poi una palese debolezza di quello che sembra essere il “predestinato” candidato premier, quel Luigi Di Maio (Giggino #DiMail per gli amici) che ne combina di tutti i colori soprattutto quando cerca di gestire le crisi locali, di leggere alcune mail e di utilizzare il congiuntivo. Lo immaginate, voi, a presiedere un G7? Probabilmente no, come non lo immaginano Beppe Grillo e Davide Casaleggio.

Al Movimento 5 Stelle la scissione del Pd sarebbe utile per puntare a essere il partito di maggioranza relativa, indisponibile a formare governi con altri (malgrado la sintonia con i lepensiti difficilmente avrebbero i numeri) e per questo mandati all’opposizione dall’ennesimo “governo abusivo non votato dagli italiani”. Cinque anni di comoda opposizione e di massiccio click-baiting assicurati, con immagini commentate e video sempre più sofisticati e intellettualmente stimolanti della senatrice Paola Taverna, che nella prossima legislatura potrebbe addirittura duettare con la sorella Annalisa esibendosi in sfide di adolescenziale memoria in diretta Facebook.

Concludendo, la scissione del Pd probabilmente converrebbe a tutti, per diversi motivi. Non è detto che convenga all’Italia; in fondo quell’intuizione – che forse si concretizzò assai più tardi di quando avrebbe dovuto, come ha recentemente dichiarato il suo fondatore, Walter Veltroni – era la chiave per unire dei mondi e dei pensieri compatibili. Mondi e pensieri, ma non uomini: quelli erano incompatibili probabilmente sin dall’inizio; lo sa bene proprio Veltroni, che pagò sulla sua pelle gli inganni di alcuni di quegli uomini, figli di quel pensiero corto che produce e riproduce un potere sterile. La scissione del Pd altro non sarebbe che la divisione dei dirigenti più o meno capaci, più o meno lungimiranti, che avrebbero dovuto animarlo, rendendolo a tutti gli effetti una comunità politica e non una somma matematica di “pezzi”. In fondo si sa, di belle idee sono pieni i libri di storia, così come sono pieni dei fallimenti di chi avrebbe dovuto realizzarle.

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