Partiti e politici
Continua la sofferenza del Pd di Renzi
Non va bene, il Partito Democratico targato Matteo Renzi. Non sta per niente bene. Una emorragia di consensi che continua ad erodere, incessantemente, la sua base elettorale. Renzi l’aveva preso in mano quando, nel dicembre di quattro anni fa, pareva ridotto ai minimi termini. La sua storia era iniziata con il massimo di voti della storia della sinistra, con Veltroni, che l’aveva portato a superare il 33%, con oltre 12 milioni di elettori che gli avevano dato fiducia.
Con il suo successore Bersani, complice la grande cavalcata dei 5 stelle, si era tornati con i piedi per terra, con la perdita dell’8% dei consensi e di 3 milioni e mezzo di elettori. Poi era arrivato Renzi, con il suo impeto rottamatore della vecchia guardia e dei vecchi slogan ormai superati dalla storia. E il Pd si era subito risollevato, con un sospiro di sollievo dei militanti, degli attivisti e degli italiani che credevano nella forza riformatrice che questo nuovo vecchio partito (“L’ultimo partito”, per dirla con il nostro libro) aveva come missione al momento della sua nascita.
Era arrivato ad una quota di consensi inimmaginabile, alle Europee del 2014; quel 40% e oltre, benché con un numero di elettori inferiore di un milione al Pd veltroniano, che pareva ridare spazio e vita all’unico partito di centro-sinistra vincente in tutto il continente. E il cammino era continuato con un certo successo anche nei mesi successivi, con stime che viaggiano costantemente ben sopra il 30% e con l’idea che, con un nuovo sistema di voto, potesse riuscire a farcela anche contro le agguerrite truppe pentastellate.
Poi qualcosa ha cominciato ad arenarsi. Il mitico “storytelling” renziano funzionava sempre meno, le contestazioni interne diventavano più aspre, gli elettori (soprattutto quelli non di parte) non riconoscevano più a Renzi quel suolo di innovatore del panorama politico di cui lui cercava di fregiarsi. In breve: gli italiani non Pd lo stavano abbandonando, fino al punto di non-ritorno del 4 dicembre dello scorso anno, con la débâcle referendaria.
Dopo qualche mese, le nuove primarie del Partito Democratico riportavano in vetta Matteo Renzi, più per mancanza di alternative che per vero e proprio rinnovo della fiducia. Chi altri si poteva scegliere, in quella occasione? Ma da quel momento in poi, iniziava il lento calvario del partito. Nonostante un governo Gentiloni in costante buona salute, e con iniziative anche salutate positivamente dagli italiani, buon ultimo il testamento biologico, il Pd a trazione renziana faticava a mantenere ancorato anche chi anticamente gli era vicino.
Oggi le stime demoscopiche, quelle peraltro più benevole, lo danno addirittura di uno-due punti sotto il Pd del 2013, quello di Bersani, che sembrava destinato a rappresentare un minimo storico. Ma alcuni sondaggi lo vedono ancor più in basso. E non è finita. Il rischio per il Partito Democratico è di arretrare ancora, nei mesi che ci separano alle prossime elezioni. Si riducesse ad una percentuale vicino al 20%, sarebbe una vera disfatta, cui si potrebbe porre rimedio solo con l’allontanamento più o meno coatto di Renzi.
Solo in quel modo, il Partito Democratico potrebbe tornare protagonista di quel cambiamento epocale nella politica italiana che rappresentava il suo primo originale obiettivo. Pare essere questa la sua ultima spiaggia.
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