Parlamento
Nel Pd dove nessuno vuole mollare, non fanno notizia le dimissioni di Bray
Nessuno vuole insegnare il mestiere a nessuno. Ma dov’era l’ufficio stampa del Pd quando il parlamentare Massimo Bray si è dimesso da deputato?
La notizia che l’ex ministro dei Beni culturali del governo Letta, eletto in Puglia nel febbraio 2013, aveva mandato una lettera al presidente della Camera Boldrini risaliva al 24 febbraio. In quelle poche righe, Bray spiegava, in parole povere, che siccome si profilava per lui un nuovo incarico all’istituto dell’Enciclopedia Treccani – dove lavora da oltre vent’anni – e siccome quell’impegno avrebbe potuto assorbirlo a tempo pieno, non era il caso di mantenere stipendio e privilegi da parlamentare, facendo il deputato a mezzo servizio.
La notizia è saltata fuori, diffusa dallo stesso Bray sulla sua pagina facebook, solo quando la Camera ha accettato le sue dimissioni, facendo subentrare Ludovico Vico. Ed è venuta fuori nei giorni in cui si discuteva, guarda caso, sull’opportunità delle dimissioni del ministro Maurizio Lupi, sfiorato dall’inchiesta sul superdirigente Ercole Incalza e nei giorni in cui ancora si discute della candidatura alla Regione Campania di Vincenzo De Luca, condannato in primo grado per abuso d’ufficio: una sentenza che pesa e turba il Pd.
Bene, uno pensa che un partito e il suo ufficio stampa dovrebbero enfatizzare un esempio positivo, anche solo in senso strumentale, almeno in quelle poche volte in cui capita l’occasione. D’altra parte, un ufficio stampa questo deve fare: vendere notizie o renderle tali. E questa, in Italia oggi, è una notizia da manuale di giornalismo, come l’uomo che morde il cane: un deputato rinuncia allo scranno per poter continuare a fare il proprio lavoro.
In tempi di furori contro i vitalizi (che Bray non potrà maturare, non avendo compiuto cinque anni di legislatura), contro i doppi e tripli stipendi, contro gli accumulatori di cariche e incarichi, di indennità e auto blu, contro politici e funzionari pubblici che non vogliono saperne di dimettersi nemmeno se nei guai con la giustizia, il Pd avrebbe potuto esibire quel deputato eletto in Puglia che, molto sommessamente, diceva: me ne vado, perché non posso fare il parlamentare così come si deve.
E’ scontato? Non mi pare. Così fan tutti? Non mi pare per niente. Certo, Bray è segnalato come dalemiano di ferro, per cui è facile pensare che il Pd di Matteo Renzi avesse tutto l’interesse di sbarazzarsi di un potenziale avversario interno. E forse anche per questo è calato il silenzio e la cosa è scivolata distrattamente su qualche giornale. Ma proprio perché Bray aveva deciso di andarsene autonomamente, il Pd avrebbe potuto fargli ponti d’oro e annunciare le sue dimissioni tra squilli di tromba e rulli di tamburo. Il Pd di Matteo Renzi ne avrebbe guadagnato in ogni caso: perdere una minaccia interna, fregiandosi allo stesso della medaglia del buon esempio, vantandosi di un partito dove c’è di tutto, perfino gente seria che non vuole stare con un piede in due scarpe.
Nessuno vuole insegnare il mestiere a nessuno. Gli strateghi della comunicazione del Pd di sicuro avevano e hanno altre cose da fare, di maggiore e stringente attualità. Ma se un partito perde l’occasione di poter fare una mezza bella figura, allora cosa vende ai suoi elettori?
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