America
Ferguson è diversa dal caso Cucchi e Tor Sapienza
Stavo leggendo le ultime da Ferguson, teatro di nuove proteste la scorsa notte, quando l’occhio mi è caduto sul titolo di un mio collega di brains qui a Gli Stati Generali: ‘‘Ferguson ricorda un po’ Stefano Cucchi e un po’ Tor Sapienza”, in un mix che a parer mio racconta tre storie completamente diverse. Partiamo dalla storia di un’America che convive coi suoi quartieri e le sue cittadine afroamericane sin dalla sua fondazione: la contea di St. Louis si trova nel Missouri, ex territorio coloniale francese ed ex stato schiavista. La porta verso l’Ovest: nell’Ottocento, il Missouri, quelli che andavano a cercar fortuna sulle coste occidentali lo chiamavano così. Nella contea di St. Louis c’è Ferguson, che è salita all’onore delle cronache lo scorso agosto per l’omicidio di Michael Brown, freddato da un poliziotto di nome Wilson. Lo stesso Wilson che il Gran Giurì ha ritenuto opportuno non processare, per mancanza di prove evidenti. La storia d’America è una storia di convivenze, di meltin pot, di difficile scambio di fiducia tra i vari mondi: qui Internazionale ricorda altri casi di afroamericani uccisi o aggrediti dalla polizia.
Per raccontare la storia dei pregiudizi razziali che popolano gli States, dei processi ingiusti, della diffidenza della comunità afro nei confronti del sistema giudiziario, basterebbe il più famoso esempio di tutti: quello del pugile statunitense Rubin Carter che ha ispirato la magnifica canzone di protesta di Bob Dylan Hurricane. Tuttavia nel caso Brown il cadavere diventa una testimonianza abbastanza evidente di colpevolezza, e la domanda che ispira le proteste di questi giorni in America è probabilmente questa: cosa sarebbe successo a Wilson se il cadavere a terra fosse stato quello di un bianco? Possiamo davvero escludere che non sarebbe stato nemmeno processato? Il caso di Stefano Cucchi in questo mi sembra completamente diverso, è la testimonianza di un cadavere pestato dalle forze dell’ordine: il corpo di Cucchi è quello di un bianco, e il mash-up che mischia questa specifica storia a quello che succede a Tor Sapienza, tanto per inserire l’elemento etnico-razziale nella narrazione, mi pare ingiusto nei confronti di tutte e tre le storie.
Le periferie delle città italiane cominciano a risentire solo oggi del livello di scontro sociale: non abbiamo vissuto il lungo percorso americano, non abbiamo avuto il nostro Lincoln e il nostro Obama. Non abbiamo mai avuto neanche un Michael Brown. L’unica cosa che abbiamo per ora è la paura dei nostri Salvini. E con la paura puoi raccontare un mucchio di frottole. In Italia, se possibile, il razzismo si ferma al pregiudizio, perché se l’America è costellata da storie di self-made black man, qui consideriamo il nero alla stregua di un portatore sano di ebola, e dio solo sa cosa. Siamo fermi al tempo del pregiudizio razziale (così come di tanti altri pregiudizi). Siamo un paese vecchio, in fondo, che avrebbe bisogno di una bella scossa. E smettere di raccontare quello che succede fuori di qui tentando la strada di improbabili paragoni con quello che succede in Italia, mi sembra potrebbe essere un bel passo in avanti.
Del resto evocare Tor Sapienza solo perché c’è di mezzo la parola ‘nero’ negli highlights fa circolare ulteriore pregiudizio. Quello di cui non abbiamo bisogno, perché se c’è una cosa che possiamo imparare ora dall’America è come non avere mai un Michael Brown anche qui.
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