Musica

Dieci dischi jazz da non lasciarsi sfuggire quest’autunno!

30 Settembre 2016

Ok, settembre se n’è andato, in un modo o in un altro. Settimane che sono servite per riprendere – o provarci almeno – il ritmo del lavoro, per stemperare l’inevitabile Sehnsucht  per vacanze finite troppo presto, quando ci si stava quasi per rilassare, per riapprezzare l’idea che sarete più eleganti con un bel maglione che non nelle più comode hawaianas.

Ora già vi immagino, mi sembra di vedervi.

Intenti e intente come scoiattoli operosi a far provviste per la stagione fredda, mentre vi pregustate tutti gli arretrati di serie tv americane da spararsi “tuttelepuntateinsieme” sotto le coperte mentre fuori piove, mentre quell’idea di risotto con la salsiccia non è più così improponibile, mentre il cipiglio serioso di qualche vino rosso corposo spazza via dalla cantina la frivolezza di quel rosé che vi ha tenuto compagnia nelle serate più calde.

No, non vi manca praticamente niente per questo autunno, ma io voglio assicurarmi che ci sia del jazz nelle vostre serate. Quello classico so che non mancherà, ma eccovi anche dieci novità da provare, tra castagne, zucca e barolo.

Partiamo con “Nearness” (Nonesuch Records), disco che vede assieme il pianoforte di Brad Mehldau  e il sax di Joshua Redman.
Due giganti del jazz di oggi e fu proprio nel quartetto del sassofonista che il grande pubblico si accorse del talento di Mehldau.  In questo lavoro in duo, registrato dal vivo qualche anno fa, la capacità di entrambi di smontare e rimontare le armonie senza mai perdere in incisività melodica e ritmica consente a temi classici come la parkeriana Ornithology o la monkiana In Walked Bud, così come in temi originali come Always August o Old West, di suonare intimamente coinvolgenti, come un dialogo deve essere.

Vi scalderà più di qualsiasi caminetto o brandy. È “Wisdom of Elders” (Brownswood Records) di Shabaka & The Ancestors, nuovo progetto del sassofonista londinese Shabaka Hutchings (recente vincitore del Mercury Prize con il progetto The Comet Is Coming), qui assieme a musicisti sudafricani.
Il mood  è afro-futurista, con lo sguardo bifronte sospeso tra passato e futuro, tra Mother Africa e Mothership Connections, tra Sun Ra e i Blue Notes, con un’intensità emotiva accesa di elettricità e di struggente umanità. Imperdibile!

A proposito di soul! Guarda chi si rivede, la sempre suadente Macy Grey, artista che da qualche tempo ha trovato in sonorità jazz stimoli giusti per la sua vocalità inquieta e brumosa.
Già accanto a David Murray in alcuni progetti recenti, la Grey ora pubblica “Stripped” (Chesky Records) alla testa di un gruppo di esperti jazzisti tra cui Wallace Roney (tromba) e Russell Malone (chitarra).
Rileggendo alcuni suoi classici come I Try o Sweet Baby, ma anche la sempre smagliante marleyana Redemption Song, la cantante trova in un blues intimo e suadente le coordinate per ridare al proprio timbro scartavetrato una dimensione acustica meno aggressiva e più immediata.

Da tenere assolutamente in dispensa anche il nuovo lavoro del pianista Fred Hersch, con l’ormai collaudato e telepatico trio che condivide con il contrabbasso di John Hébert e la batteria di Eric McPherson. Musicista spesso sottovalutato, ma tra i più sensibili e originali nel solco della grande tradizione “evansiana”, Hersch è qui catturato dal vivo in una “Sunday Night At The Vanguard” (Palmetto Records) che non solo dialoga con la mitica storia del locale newyorkese, ma riesce, attraverso temi originali e belle riletture di Monk o Kenny Wheeler (oltre che di The Peacocks, icona del repertorio di Bill Evans) a costruire una serata – e ora un disco – davvero magici. Bis in solo con la consueta Valentine (che vi propongo qui da un vecchio concerto)

In questo autunno torna anche un gigante assoluto della musica afroamericana come Wadada Leo Smith, che dedica un meraviglioso doppio disco agli “America’s National Parks” (Cuneiform Records) in occasione del centenario del National Parks Service.
Insieme ai fidati Anthony Davis (pianoforte), John Lindberg (contrabbasso) e Pheeroan akLaff, cui si aggiunge al violoncello Ashley Walters, Smith costruisce una serie di intensi affreschi in cui il paesaggio americano assume un ruolo di conturbante evocatività, in grado di dare al consueto, visionario lirismo della tromba del musicista, nuove potenzialità. Da ascoltare con attenzione e a lungo.

Molto autunnale e riflessivo, con l’ipnotica circolarità dei temi, è “Ida Lupino” (ECM Records), disco che al collaudato duo tra Giovanni Guidi (pianoforte) e Gianluca Petrella (trombone) aggiunge la batteria di Gerald Cleaver e i clarinetti di Louis Sclavis. A partire dall’iniziale What We Talk About When We Talk About Love, con il suo incedere quasi amniotico, il disco si accende di colori e ritmi grazie all’ottima intesa tra i quattro musicisti, culminando in un intenso fuoco emotivo con la rilettura di Ida Lupino (capolavoro di Carla Bley, da sempre cavallo di battaglia del repertorio del ex marito Paul) e di un classico della canzone politica italiana, Per i morti di Reggio Emilia, che cresce come una inquieta e ancora attuale marcia funebre.
L’annodarsi di ritualità, senso politico, tensione melodica, quartomondismo filtrato da una sensibilità che ha più di qualche debito con l’elettronica più raffinata (pur mantenendosi nel disco una rigorosa pulizia acustica), fa di questo lavoro un’ottima prova che sarebbe piaciuta al compianto Charlie Haden.

A proposito di Paul Bley (che con la sua scomparsa ai primi di gennaio ha aperto l’anno horribilis delle morti di musicisti celebri), è dedicata a lui anche la lunga suite che costituisce l’asse portante del disco “Duet” (Long Song Records) della pianista giapponese Satoko Fujii insieme al contrabbassista americano Joe Fonda (al flauto in un bel frangente del pezzo).
Siamo qui nell’ambito dell’improvvisazione più avventurosa, ambito nel quale entrambi i musicisti – cui si aggiunge nel secondo, più breve, pezzo, la tromba di Natsuki Tamura – eccellono, creando in tempo reale una narrazione di rara evocatività, cui abbandonarsi completamente. Splendido disco.

https://youtu.be/AXpA4K5Hf8E

Ancora un pianoforte, quello di Claudio Filippini, musicista giovane e talentuoso, che nella prova in solo “Overflying” (CamJazz Records) immette un carico contagioso di musicalità. Come accade nell’approccio solitario di molti ottimi pianisti italiani delle generazioni più recenti (penso a Zanisi o Lanzoni, che non a caso hanno recentemente inciso proprio per la CamJazz degli analoghi recital), i riferimenti sono radicati più nella tradizione occidentale classica (in scaletta troviamo Prokofiev, Scarlatti, Ravel e Beethoven) e nella tradizione melodica italiana che non nel linguaggio afroamericano e nei tanti stimoli che le altre musiche creative di oggi offrono.
Si può discutere a lungo se questo costituisca o meno un limite per musicisti anagraficamente ancora ben più che “autorizzati” a osare (io credo di sì e lo ripeto di recensione in recensione come un vecchio rimbambito), ma non si può non rispettare la scelta dell’artista e non farsi contagiare dai bei colori che Filippini mette in questo disco, dalla calibrata miscela di lirismo e ritmi, dalla luce che l’ottima tecnica gli consente di immettere in ogni nota. Tasti che cantano.

Chi invece, nonostante abbia ormai 65 anni, non sembra perdere mai il gusto per sonorità provocatorie e avventurose, è Elliott Sharp, compositore, chitarrista e sassofonista di culto nella scena newyorkese e non solo. Il nuovo lavoro del suo progetto Aggregat, intitolato “Dialectrical” (Clean Feed Records) è un brulichio di idee spigolose, ben assecondato dagli innesti di Taylor Ho-Bynum alla tromba e del leggendario Barry Altschul alla batteria, accanto al collaudato contrabbasso di Brad Jones e al trombone di Terry L. Greene II.  Quintetto attraverso il quale Sharp rilegge le istanze della new thing attraverso la propria, privilegiata, lente di complesso compositore, Aggregat trova anche in questo disco le strade giuste per sfornare uno dei più stimolanti lavori avant-jazz dell’anno.

***

Chiudo riagganciandomi a quando, all’inizio dell’articolo, vi dicevo che di jazz classico ne avrete già a sufficienza. Se così non fosse e voleste qualcosa di nuovo che però profuma esattamente come un classico, segnalo in nuovo lavoro del trombettista e cantante tedesco Till Brönner, che con “(The Good Life)” (Okeh/Sony) ci offre una patinata e elegante scelta di classici standard, da Sweet Lorraine a In The Wee Small Hours Of The Morning, accarezzati con la dolce malizia di chi sa che qualche cuoricino si spezzerà certamente, nonostante la prevedibilità.

https://youtu.be/_cC971cw4i8

Ma che fate? State già mettendo le castagne al fuoco?

 

 

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