Musei
Sì a un museo nazionale del fascismo, ma decisamente non a Predappio
Perché Predappio?
Da qualche anno il sindaco di Predappio, Giorgio Frassinetti, ha iniziato a promuovere varie iniziative per provare ad affrancare il suo comune dal coacervo di simboli che ne hanno profondamente segnato l’immagine. Nel dopoguerra quella piccola cittadina, situata in un angolo dell’Emilia a poca distanza da Forlì e Cesena, è divenuta il principale luogo della memoria neofascista: paese natale e luogo di sepoltura di Mussolini, è lì che in alcune ricorrenze – l’anniversario della marcia su Roma, i giorni della nascita e della morte del dittatore – si concentrano i nostalgici del ventennio per celebrare il culto postumo del duce, per ritrovarsi, contarsi e segnare la loro presenza nel corpo vivo della Repubblica. La cripta che contiene le spoglie di Mussolini è a tutti gli effetti un luogo di culto, meta di pellegrinaggi politici attorno ai quali si è generato un fiorente mercato in cui viene venduta oggettistica kitsch che funge – per i nostalgici – da segno di appartenenza a una comunità politica: oggetti che fanno da marcatori identitari.
L’esigenza del sindaco di reagire a questo stato di cose è comprensibile e legittima. Decisamente discutibile invece l’idea che per compensare o contrastare questa situazione si possa pensare di fondare lì un centro studi o addirittura un museo nazionale del fascismo, con ingente investimento di risorse pubbliche.
Nelle ultime settimane, dopo diffusione di notizie circa l’annunciato stanziamento di cospicui fondi statali per la realizzazione di quel progetto museale, si è sviluppato un dibattito tra gli storici italiani. Ne ha parlato anche David Bidussa, proprio qui su ‘Gli Stati Generali’. Più passa il tempo e più crescono gli interventi critici (cfr. qui, qui e qui). Ma va riconosciuto che qualcuno – oltre i promotori, tra cui figurano diversi studiosi serissimi guidati da Marcello Flores, direttore scientifico dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione – si è espresso chiaramente a favore.
Quali sono le principali motivazioni addotte a favore? Sergio Luzzatto, brillante studioso e autore – tra l’altro – di un fondamentale testo sul culto del duce, ha motivato così il suo sostegno al progetto:
“I musei storici, i centri di documentazione, i memoriali, nascono spesso nei luoghi che sono stati teatro degli eventi ai quali si riferiscono. Le scolaresche francesi vanno a Verdun per imparare l’orrore della morte in trincea durante la Grande Guerra. Le scolaresche dell’Europa intera vanno ad Auschwitz per imparare la tragedia della Shoah. Perché – una volta garantiti, attraverso un comitato scientifico e quant’altro, il rigore culturale e la pertinenza espositiva di un Museo del fascismo – le scolaresche italiane non dovrebbero andare a Predappio per imparare in loco il disastro del Ventennio mussoliniano?”
È un’affermazione curiosa e disorientante. È vero che in diversi casi, anche se non sempre, i musei hanno preso forma nei luoghi che sono stati ‘teatro degli eventi ai quali si riferiscono’, ma di quali eventi è stato teatro Predappio? È un luogo significativo per la storia del movimento e poi del regime fascista? La risposta è semplice: no! Predappio è ‘solo’ il luogo di nascita e di sepoltura di Mussolini. Non è lì che si consumano le tappe cruciali della storia del fascismo. Predappio non è un luogo della memoria del fascismo, è un luogo della memoria di un’altra esperienza politica ed emozionale: è un luogo della memoria del neofascismo. E quest’ultimo è fenomeno politico e culturale che certo nasce dalle ceneri dell’esperienza fascista, e in particolare dalla sua ultima fase – quella di Salò -, ma sarebbe improprio confondere o sovrapporre i due piani. Quello è un luogo carico di una simbologia improntata alla nostalgia e al culto della personalità, il luogo in cui nel dopoguerra può radunarsi una comunità di sconfitti e di reietti. Figure e soggetti che celebrano un passato mitico e attraverso quello articolano il loro rapporto conflittuale con la Repubblica nata dalla Resistenza.
Pensare di fare un museo o centro studi nazionale del fascismo nel luogo principe del neofascismo appare improprio, mistificatorio, deformante. L’esperienza storica ventennale, complessa e multiforme del fascismo merita di essere attentamente analizzata e opportunamente illustrata e spiegata ai non specialisti, agli studenti, ai turisti italiani e stranieri. Con essa i conti vanno fatti fino in fondo, evitando condizionamenti simbolici che altererebbero inevitabilmente visione e sentimento dei visitatori o fruitori del potenziale museo o centro. I simboli hanno una loro forza intrinseca, difficilmente sono addomesticabili, tanto più quando si parla di luoghi così sovraccaricati da un culto pluridecennale e da un’industria del kitsch che di quel culto è parte consustanziale. Confondere fascismo e neofascismo non renderebbe un buon servizio alla conoscenza e alla comprensione né dell’uno né dell’altro e quella confusione sarebbe inevitabile in quel luogo.
Non solo, va anche detto che Predappio non è solo un luogo della memoria neofascista. È essenzialmente e primariamente il paese natale di Mussolini, e il luogo dove la sua salma – dopo complesse peripezie – è stata deposta nel 1957. Ma il fascismo non si riduce e non si può ridurre alla sola figura, per quanto cruciale, del dittatore. Il rischio di confondere fascismo e mussolinismo, di schiacciare un regime complesso sulla figura de suo capo, è stato sventato dagli studi in sede storiografica e rischierebbe invece di riaffiorare con quest’improvvida operazione.
L’altra principale motivazione addotta a favore della costruzione del museo o centro studi in quel luogo è quella di contribuire in qualche modo a emancipare il piccolo comune emiliano dal peso della ritualità neofascista. Per esempio, David Bidussa ha osservato che «Predappio oggi è un luogo della memoria nostalgica. Fare in modo che divenga soprattutto un luogo di riflessione su un fenomeno che ha innervato profondamente la storia d’Europa nella prima metà del Novecento e che è tornato ad affascinare porzioni di minoranza, ma consistenti, dell’opinione pubblica in Europa, è una sfida culturale e civile di grande spessore.» Io aggiungerei che è una sfida impossibile. Dubito che anche la migliore squadra di studiosi immaginabile, con a disposizione risorse ingentissime, potrebbe davvero rigenerare e liberare quel luogo dalle incrostazioni simboliche sedimentatesi lungo tutto il dopoguerra. In quest’ottica, sarebbe proprio la natura di Predappio quale spazio sacro dei neofascisti a giustificare, paradossalmente, la scelta del luogo. È un ragionamento che non convince.
Gli spazi della storia, i territori del mito, e le vie del commercio
È intollerabile che a Predappio di fatto non si possa celebrare la Liberazione: per un’ironia della storia quella località è stata liberata dalle forze alleate proprio il 28 ottobre, lo stesso giorno della marcia su Roma. Accade così che in quella data migliaia di neofascisti si rechino in pellegrinaggio alla cripta di Mussolini, occupando la città e impedendo de facto la celebrazione della sconfitta del regime e della ritrovata libertà. Questo fatto ci da l’idea di cosa sia quel luogo e di quale sia la portata dei problemi simbolici da affrontare.
Quello è da decenni il sancta sanctorum del culto neofascista. Un culto marginale e minoritario, ma che pure ha un suo spazio e un suo perverso ruolo in seno al corpo politico della Repubblica. La Repubblica nata dalla Resistenza, che pure ha deciso di mettere fuori legge il partito fascista, ha consentito ai neofascisti di avere uno spazio nella sfera pubblica e ai loro partiti di presentarsi alle elezioni. Una decisione controversa, e più volte ridiscussa, ma che indubbiamente ebbe il benefico effetto di rendere trasparente una presenza che altrimenti non sarebbe stata eliminata, ma sarebbe solo stata confinata nella clandestinità e dunque sarebbe divenuta più difficile da conoscere e controllare. Conseguentemente i neofascisti hanno ricoperto uno spazio – seppur marginale – nel discorso pubblico: con le loro testate giornalistiche, le loro case editrici e oggi anche i loro siti web. E inevitabilmente hanno finito con l’occupare anche qualche spazio reale, fisico, nel territorio della Repubblica.
Per lunghi anni la salma di Mussolini fu tenuta nascosta per evitare che il luogo di sepoltura divenisse punto di aggregazione degli ultimi fedelissimi di Salò. Il Governo guidato da Adone Zoli che, a 12 anni dalla fine della guerra, restituì le spoglie di Mussolini alla famiglia sottovalutava forse la persistente potenza evocativa di quel corpo morto, ma fece comunque una scelta che era coerente con le politiche di fondo adottate nei confronti del M.S.I. La Repubblica si era resa da tempo disponibile a concedere un qualche spazio ai neofascisti nella sfera pubblica. Poteva tollerare anche che si riunissero, coi loro riti mortuari e le loro cupe liturgie, intorno alla tomba del dittatore sconfitto.
Da allora sono passati 59 anni, e al culto vero e proprio si sono aggiunti – esattamente come in altri ben più importanti siti di pellegrinaggio – il merchandising e il commercio di una moltitudine di souvenir per i fedeli-consumatori: busti, insegne, tazze, magliette, bottiglie ecc. Non sono pensabili interventi esterni capaci di neutralizzare i simboli, i miti e i consumi che si coagulano in quel luogo e che lo hanno reso ciò che é oggi. Se tutto ciò passerà, passerà da sé quando a nessuno interesserà più la mitologia reazionaria che lì si incarna.
Resta da chiedersi che senso avrebbe contrapporre a quella religione politica una esposizione museale. Non si può davvero ritenere proficuo per turisti o scolaresche andare un momento alla cripta dove riposa il cadavere di Mussolini, girovagare prima e dopo tra i negozi che vendono busti del duce e vessilli della X MAS, per poi essere esposti alla presentazione razionale e documentata di una storia complessa. Il rischio infatti è che – come ha osservato Gioanni De Luna – l’offerta del museo venga assimilata alle altre ‘merci’ – materiali e immateriali – rivendute e consumate in quel luogo. I due piani, quello della storia e quello del culto del duce, quello museale e didattico e quello commerciale, non possono stare insieme in modo felice. L’uno cozza inevitabilmente contro l’altro: l’immaginario kitsch dei nostalgici è destinato a contaminare l’ambiente, rendendo vano ogni esercizio storico-critico.
Predappio dunque non è solo un luogo marginale, decentrato e fuori mano, lontano dai circuiti turistici. Non è solo un luogo che non ha una connesssione profonda con la storia del ventennio fascista, è un luogo sovraccarico di immagini, di idee senza parole che rendono improponibile pensare lì un museo nazionale del fascismo che sia serio e che sia utile.
Tante memorie e una storia
Pare che i promotori del museo immaginino di poter contribuire, con la loro operazione, alla costruzione di una «memoria comune». Ma cos’è una memoria comune? Dove mai si è vista? Una delle piaghe che affliggono il dibattito culturale italiano di questi decenni è stata l’idea che le ‘memorie divise’ siano un male, una sorta di degenerazione o patologia. Nulla di più lontano dal vero, decenni di studi e una bibliografia ormai vastissima in varie lingue ci mostrano che le memorie pubbliche sono per definizione plurime, conflittuali, divise. È fisiologico che sia così, tanto più in società libere e democratiche.
Ci si emancipi dunque da ogni tentazione irenica: le diverse narrazioni (quella fascista e quella antifascista, quella storico-critica e quella nostalgico-celebrativa) non possono essere azzerate né ricomposte, non si compensano a vicenda anche perché abitano territori diversi e distanti. Il museo del fascismo deve porsi sul piano della storia, e la storia – quella sì, a differenza delle memorie – è una e va condivisa. A mio giudizio il museo non dovrebbe compiere l’errore di presentarsi banalmente come un’altra narrazione, tra le tante. E una cosa è certa: non si deve andare a misurarsi sul terreno e nel campo proprio dei neofascisti, contrapponendo o giustapponendo una memoria a un’altra o tentando artificiose quanto improbabili sintesi. Né si può pensare di contrapporre la storia alla memoria, di sanare o curare la seconda con iniezioni massicce della prima.
Ciò detto, credo che di un museo del fascismo ci sarebbe bisogno, ma andrebbe fatto altrove. E prima di nascere necessiterebbe di un adeguato approfondimento e di una lunga e ampia discussione pubblica che coinvolga storici e museografi. Abbiamo già un precedente infelice: la nascita in maniera improvvisata del progetto del Museo Nazionale della Shoah a Roma, e i risultati – o meglio l’assenza di risultati dopo moltissimi anni – testimonia di quanto siano inopportune certe fughe in avanti di politici e amministratori locali.
Personalmente, credo che un museo nazionale sul fascismo dovrebbe affrontare finalmente e sino in fondo una questione cruciale, la grande questione che l’Italia del dopoguerra non ha mai affrontato. Come registrò nel 1979 lo storico liberale Rosario Romeo – alla voce ‘Nazione’ redatta per l’Enciclopedia del Novecento Treccani – «i conti col passato fascista furono fatti in Italia assai rapidamente con il generale oblio di tutte le responsabilità e di tutte le colpe, presto e universalmente assolte come veniali»
Il museo nazionale del fascismo dovrebbe finalmente colmare quella lacuna, dovrebbe mettere in luce le responsabilità del paese tutto. È chiaro che questo non può avvenire in un luogo identificato con la persona del dittatore, poiché –come già notato – il rischio di schiacciare su di lui tutta la storia (e quindi tutte le responsabilità) sarebbe troppo grande. Ciò che andrebbe messo in mostra sarebbe la responsabilità collettiva della nazione italiana – della cultura, della società, dell’industria, degli apparati dello stato – nella genesi del movimento fascista, nella sua presa del potere e poi nello strutturarsi della dittatura e delle sue politiche repressive in patria e all’estero. I temi centrali da affrontare sono quelli del consenso, della compartecipazione, del coinvolgimento delle masse nella vita del regime.
Forse il dibattito innescato intorno al caso Predappio può essere l’occasione perché finalmente – a oltre 70 anni dalla fine della guerra – quei conti si facciano, quelle responsabilità si misurino fino in fondo, senza infingimenti e falsi pudori, senza censure e tentennamenti. Per farlo, e per evitare che si sprechino risorse in un periodo di vacche magre, sarebbe utile evitare di lanciarsi in imprese avventate e segnate sin dall’origine da tanti, troppi problemi.
Devi fare login per commentare
Accedi