Musei
Una bella riforma dei musei grazie all’abissale ignoranza dei politici
Nel breve giro di qualche giorno sono andate in scena due Italie, una è quella che vorremmo, l’altra è quella che detestiamo. Entrambe, qui sta il miracolo cattivo, provengono dallo stesso organismo, il governo, che nel caso dei nostri musei ha mostrato la più bella faccia di sè, mentre nel caso delle nomine Rai ci ha fatto vedere il mostro che conosciamo bene, quello della lottizzazione, della prevaricazione partitica, del capovolgimento sistematico dei criteri che determinerebbero delle scelte sulla base di merito e competenze. Dobbiamo subito dire che l’Italia che vorremmo non esiste in natura, tanto è forte e presente quella che detestiamo, al punto che la riforma dei musei appena sgabbiata ci appare come purissima eresia. Però è lì da vedere, soprattutto sul piano del metodo e degli automatismi che in genere regolano i paesi civili: il collegio giudicante di assoluto livello ha lavorato sui curricula e ne sono usciti i nomi che sapete, con notevole innesto di professionisti stranieri, cosa che ha fatto starnazzare qualche gallinaceo locale, ma è pochissima cosa.
Si deve dir bene del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, non c’è dubbio, che si è messo di impegno perché la cosa procedesse sul filo della decenza complessiva. E per provare a sorridere, si potrebbe anche interpretare la buona riuscita di questa #Operazionemusei come la certificazione più evidente e lineare dell’ignoranza della nostra classe politica. Ignoranza culturale, che altro? Su qualunque altra riforma, che avesse previsto l’ingerenza di corpi diversi (burocrati di stato, affaristi, accattoni, sindacati, mestatori, lobbisti e tante altre categorie che per brevità non citiamo) il risultato non sarebbe stato quello che poi abbiamo avuto. La politica e gli interessi l’avrebbero stravolta, facendola diventare portabandiera dell’Italia che detestiamo.
Invece, la cultura ha prodotto il miracolo. Completamente privi di strumenti per intervenire, non sapendo nulla della materia, i nostri politici hanno lasciato fare, anche perché sulla cultura c’è ormai poco da mangiare avendo tagliato tutto il tagliabile. L’ignoranza al Potere ha fatto sì che decidessero “altri”, totalmente disgiunti dalla fogna dei Palazzi, gente di buonissimi studi come ad esempio Nicholas Penny, direttore della National Gallery di Londra o Claudia Ferrazzi, già vice-amministratore generale del Louvre, i quali hanno potuto decidere solo ed esclusivamente su criteri alti, di merito. “Pittoresco, molto pittoresco”, avrebbe commentato la romantica donna inglese di Montesano. Naturalmente non è il caso di illudersi. La riforma dei Musei, il suo metodo, non si faranno sistema. Ma tornando alla Rai, che è poi il vero paradigma italiano, lasciateci sognare un po’. Pensate se invece della Commissione di Vigilanza, a giudicare fossero state personalità del livello di Penny o della Ferrazzi, naturalmente in campo televisivo. Ma dove li avrebbero mandati Guelfo Guelfi, la Borioni o Siddi, quale navicella avrebbero usato per centrifugare nello spazio le menti di Diaconale, Messa e Mazzucca?
Purtroppo all’orizzonte non v’è traccia di altre riforme in cui la cultura ha un ruolo dinamico e centrale. O meglio, tutto sarebbe cultura di un Paese, tutto ne formerebbe il tono, ma, ahinoi, c’è anche da piazzare amici degli amici, figliolanza, c’è da accontentare gli alleati, insomma alla fine aveva ragione quel noto commercialista di Sondrio, il prof. Giulio Tremonti: con la cultura, quella dei Musei, non si mangia! Con il resto, se ne può parlare.
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