Milano
Le elezioni politiche del 2016? Sono a Milano, e iniziano oggi
Partiamo con un esercizio di immaginazione, per capire la portata delle elezioni amministrative che iniziano la prossima domenica, il 5 giugno, e si completano con il secondo turno del 19. Partiamo dai risultati acquisiti, quando saranno acquisiti, e dall’unica città il cui risultato è davvero in grado di cambiare il destino della stagione politica che viviamo. Partiamo da Milano che sola – a meno di cataclismi congiunti tra una sconfitta al secondo turno di Torino di Fassino e l’esclusione di Giachetti dal secondo turno di Roma, dando per scontata la conferma di De Magistris a Napoli – è in grado di segnare un umore inatteso e decisivo dopo le elezioni. In quale situazione? Nella situazione di una sconfitta del centrosinistra che ha candidato Beppe Sala, naturalmente.
E dunque, l’immaginazione. È il 20 Giugno, abbiamo in mano i risultati definitivi del secondo turno per le amministrative di Milano, e Stefano Parisi e il centrodestra hanno vinto in volata, di un soffio, le elezioni amministrative di Milano. La bassa affluenza che doveva favorire Sala si è trasformata in un boomerang, è bastata una piccola quota di elettori del Movimento Cinque Stelle che ha deciso di andare a votare in nome dell’antirenzismo, ed eccoci qui. Nella città italiana che era stata il tanto decantato simbolo dell’Italia che ce la fa, dell’Italia che si fa ammirare all’estero e sa organizzare grandi eventi – Expo, ovviamente – in maniera tutto sommato dignitosa, con solo qualche scandalo di contorno e qualche ritardo abilmente tamponato. Nella città italiana che alle europee del 2014 aveva funzionato da palcoscenico della consacrazione del nuovo Partito Democratico trainato da Matteo Renzi, che nella capitale lombarda aveva preso 257 mila voti e il 45% delle preferenze, ben oltre la già stratosferica quota nazionale del 40%. Nella città che era stata sì capitale dei lustri berlusconiani e leghisti ma che, proprio per questo, con la piazza arancione di Pisapia nel 2011, aveva sancito l’inizio della discesa irreversibile di quel ciclo politico e di quella leadership egemonia, trascinando con sè anche la fine di un assetto novecentesco all’interno del principale partito non-berlusconiano dello schieramento italiano.
E dunque: cosa potrebbe mai significare, nel giugno del 2016, un risultato favorevole al centrodestra a Milano, proprio a Milano? Un cataclisma politico, per Renzi, al di là della sua volontà di puntare tutto sul referendum costituzionale di ottobre. Molte cose, nel dettaglio, che vale la pena di mettere in fila anche per chi – come me, che scrivo – un risultato che porta Stefano Parisi ad essere sindaco di Milano risulta improbabile. Improbabile, però, come dice la parole, non è sinonimo di impossibile, e quindi a maggior ragione l’ipotesi va presa sul serio. E “scomposta”, per così dire, da prima.
Il primo elemento, indipendentemente da ogni contraria volontà dichiarata dal principale interessato, sarebbe un giudizio politico sul percorso guidato dal presidente del consiglio e segretario Matteo Renzi. La centralità di Milano nella sua ascesa non ha bisogno di essere oltre ricordata e del resto ogni leadership politica italiana caratterizzata da volontà e azioni di discontinuità rispetto al passato è passata di qui. Milano è la capitale economica, è la città che ha retto meglio all’urto della crisi, prima, e che di più ha saputo tracciare una strada di resistenza e di nuova ripartenza, durante. Si pensi a Expo, certo, ma anche alle tante forme di nuova imprenditorialità, al florilegio di nuove iniziative di sharing economy, all’esplodere di festival, eventi, occasioni. Indipendentemente dal giudizio della città su Renzi, e viceversa, se c’è una città che ha incarnato esperimenti di nuova vita e di nuovi modelli, come spesso capita nella storia patria, questa è Milano. Una sconfitta del candidato di Renzi – Beppe Sala, appunto – sarebbe una bocciatura di questa leadership, di questo modello.
Sarebbe la certificazione del fatto che proprio nella città che era stata la storica capitale del centrodestra berlusconiano, prima, e poi il vero traino di un centrosinistra nuovo e diverso da quello nato dalle lungamente ribollenti ceneri del Pci, dopo, il renzismo vive un punto di crisi profondissimo, potenzialmente un punto di rottura irreversibile. Dalle parti di chi fa la campagna elettorale per Sala, invero, abbiamo orecchiato una battuta che rende bene l’idea. “Se Sala vincerà, come tutti ci auguriamo, Renzi saprà distribuire i complimenti e i meriti per tenersene la parte maggiore. Ma se Sala dovesse mai perdere, la colpa sarebbe tutta di Maurizio”. Il Maurizio in questione è Maurizio Martina, ministro dell’agricoltura che con Sala ha lavorato gomito a gomito nella preparazione di Expo e che di sicuro è stato tra i grandi sostenitori della candidatura di Beppe Sala. La battuta è brillante, e rende bene l’idea di quali retoriche si avvieranno in caso di vittoria o in caso di sconfitta. Ma lascia il tempo che trova, nel senso che, al di là dei giornali addomesticati e delle propagande già pronte all’azione, la sconfitta di Sala sarebbe la sconfitta di Renzi. Punto.
Sarebbe una sconfitta perché segnerebbe lo sfaldarsi di un consenso che sembrava già la costruzione di un nuovo zoccolo duro, ma sarebbe anche, e forse soprattutto, la sconfitta di una leadership partitica che, impegnata a governare, non solo dimostrerebbe di non essere riuscita a costruire in quattro e quattro otto una sua classe dirigente, ma anche di non essere capace di puntare sui cavalli giusti lì dove li ha potuti cercare e trovare in una società civile vitale, operosa e consanguinea al proprio dna di centrosinistra post-ideologico e operoso. Vorrebbe dire che l’intuito delle persone che fa parte delle vere doti del leader, avrebbe toppato, e clamorosamente, scommettendo su un soggetto incapace di vincere una partita che – come lasciava correre lo staff renziano in retroscena non proprio rubati – “era già vinta, grazie al successo di Expo”. Sarebbe quindi la sconfitta sia del segretario vecchia maniera, che ha sbagliato calcoli, strategia e percorso politico, sia del segretario 2.0, che annusa gli umori, cavalca le onde, sa fare il decreto elettorale e insieme il tweet post-moderno. Sarebbe la sconfitta di Renzi in purezza, come il contrario però, è bene dirlo, sarebbe invece la sua vittoria.
Il secondo elemento, speculare e strettamente connesso al primo, sarebbe l’inattesa, inaspettata, quasi imprevedibile appena poche settimane fa, vitalità del centrodestra. Di un centrodestra, nonostante tutto, ancora plasmato e pensato dalle intuizioni di Silvio Berlusconi. Quest’affermazione sarà vera anche in caso di una vittoria risicata del centrosinistra di Sala e Renzi e perfino di una vittoria “morbida”, di un ballottaggio che finisse 53 a 47 per il candidato di centrosinistra. Parleremmo comunque di un centrodestra che, camminando a ranghi compatti e trovando un candidato serio e preparato da presentare, come è Stefano Parisi, può comunque competere in modo dignitoso. In caso di vittoria, tuttavia, le proporzioni dell’affermazione e della sorpresa sarebbero aumentate ben oltre i confini della vitalità. Stefano Parisi sarebbe proiettato immediatamente a un ruolo nazionale. Un eventuale contemporanea brutta sconfitta di Giorgia Meloni a Roma (siamo nel campo delle ipotesi, giocate con noi senza cavillare) consentirebbe a un Silvio Berlusconi vecchio, stanco, e spesso nominato con sorrisini di compatimento, di spiegare che i rimbambiti sono i due quarantenni che giocano alla destra populista, e di ricominciare a dare le carte.
Il terzo elemento, più intrinsecamente milanese, porterebbe a un processo durissimo sull’eredità della giunta di Giuliano Pisapia. Anni di buona amministrazione, di positiva percezione del cambiamento avvenuto a Milano, si infrangerebbero contro un risultato di segno apertamente avverso. È vero, senza Pisapia direttamente in campo, ma pure schierato apertamente a sostegno della lista che costituisce l’ala di sinistra del tridente che porta Sala a essere candidato, ma con quasi tutti i suoi assessori e moltissimi dei consiglieri in campo al suo fianco. Vorrebbe dire, una sconfitta di Sala, un enorme errore di valutazione della forza e della popolarità della giunta uscente. L’ennesimo effetto ottico distorcente, in cui noi, che ci parliamo sempre tra di noi, non abbiamo proprio capito come e dove stava andando la pancia della città.
Gli elementi che emergerebbero da un risultato di questo tipo sono tanti, e tanti di più, ma per guardare all’ultimo settimana di una (poco partecipata, diciamocelo) campagna elettorale, forse possiamo anche fermarci qui. L’aria che tira, perfino a Milano, figurarsi a Roma, è quella di una fase di rapporto con la politica parecchio distaccato. La sensazione è che le passioni contrapposte degli anni centrali del berlusconismo non torneranno più, al di là delle distorsioni percettive di noi che, a vario titolo, viviamo immersi in questo stagno di media comunicanti tra loro che di tanto in tanto, per vezzo nostro, vogliamo credere mare.
E insomma, da questo falsato punto di osservazione, pensiamo che, alla fine, un così brusco cambio di rotta di Milano, avamposto d’Italia, resti improbabile. Improbabile perché il renzismo vive molte fatiche, ma non sembra al tracollo. Improbabile perché un lampo di lucidità del berlusconismo calante non cancella la fine di una spinta propulsiva, e alleati davvero non all’altezza nemmeno del Silvio di oggi, figuriamoci se possiamo accostarli al Silvio che fu. Più probabile – annusando un’aria inquieta ma non rabbiosa, disincantata ma non negativa, ancora nonostante tutto orgogliosa di Expo, almeno nella pancia meno politicizzata e però più fidelizzata al rito elettorale – è che Sala rappresenti una scelta politica razionale fatta da Renzi e dai suoi uomini. E che lo strano mix tra l’eredità senza entusiasmo che porta il mondo di Pisapia e il renzismo di rito tecnico e ambrosiano di Sala possa farcela. Se così fosse, il modello Milano diventerebbe un’interessante matrice su cui modellare i (faticosissimi) destini del pd renziano in giro per l’Italia. Proprio per questo, però, il test va preso sul serio fino in fondo, perché la partita – ripetiamolo, che sia chiaro a tutti – ha un favorito, ma non un vincitore certo. Un risultato diverso da quello su cui il segretario premier scommette non potrebbe non interrogare tutti sulla rotta scelta. Perché la strada che si prende a Milano, ormai è storia, prima o poi segna il destino del paese. Per la verità, di solito, più prima che poi.
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