Milano
No, non è stata la monetina: cosa insegna a Milano e Roma l’EMA perduta
A un metro dal traguardo, si infrange il sogno di avere a Milano l’EMA, agenzia europea del farmaco destinata a traslocare a breve da Londra dopo la Brexit. La sconfitta arriva nel modo peggiore da digerire, dopo tre votazioni condotte sempre in testa, e arrivando quindi all’ultima votazione-spareggio che vedeva Milano contrapposta ad Amsterdam. All’ultimo voto le due città raccolgono lo stesso numero di preferenze e quindi si va, come da regolamento, al sorteggio. Il sorteggio premia Amsterdam.
Da questa storia di politica e lobbying possiamo raccogliere diversi dati sul presente e qualche insegnamento sul futuro.
Milano non era favorita, e gli umori di chi ha costruito e seguito da vicino la candidatura, negli ultimi giorni, erano altalenanti con una tendenza diffusa al pessimismo. Si temeva addirittura che la città non potesse arrivare nemmeno a superare le prime votazioni. Così non è stato. Perché Milano ha costruito evidentemente una buona e solida reputazione in Europa e nel mondo, e perché i vari livelli istituzionali italiani si sono spesi davvero generosamente nel sostenere questa partita. Tanto da arrivare davvero a un passo dalla meta.
Questo però non è bastato, non sono bastate le virtù milanesi nè il lavoro governativo e di rapprsentanza diplomatica. Nascondersi dietro all’evidente casualità del momento finale finirebbe con l’oscurare ragioni strutturali di un percorso che, comunque, non aveva portato il capoluogo milanese ad ottenere “sul campo” una vittoria piena. Nelle settimane scorse, chi seguiva da vicino il dossier tra Milano, Roma e Bruxelles, evidenziava diversi nodi. Anzitutto, pesava un po’ il malumore di lungo periodo lasciato dalla “politica dei pugni sul tavolo” esibita per anni, in tempi recenti, da una governo italiano in Europa. Un elemento forse non decisivo ma che, ambientalmente, circolava nelle stanze in cui covavano le decisioni.
Ancora, al di là dell’ottima crescita di peso che la candidatura ha conquistato nel tempo, conta sicuramente un dato che sfugge del tutto alla costruzione dei singoli dossier e che nemmeno li riguarda, e sono le ragioni politiche e geopolitiche di una scelta. Si diceva che queste avrebbero premiato Bratislava, per mandare un segnale di apertura e attenzioni a tutti i paesi dell’est Europa entrati di recente nell’Unione. Se così fosse stato, almeno, avremmo assistito ad un’Europa che cerca di compensare la distanza dagli umori profondi che circolano ai suoi confini, e che abbiamo plasticamente e spaventosamente rappresentati dalla piazza xenofoba ed estremista polacca appena pochi giorni fa.
Ma così non è stato, e quindi l’ennesima opportunità di sviluppo e attenzione va a insistere, ancora una volta, sui paesi del nord dell’Europa continentale, stringendo sempre di più il cordone (attenzione: evitate che diventi un cappio) attorno a Bruxelles, Francoforte e a Strasburgo, insomma alle sedi istituzionali dei vari organismi comunitari. Si dirà, ed è vero, che non è stata l’Europa a votare, ma la rappresentanza dei paesi membri. Si intuisce da subito, però, che ad essere decisivo è stato il lavoro lobbyistico e di sponda di quel blocco di paesi, stabilmente egemoni nelle burocrazie europee e per questo sempre più “antipatici”.
Se gli europei del Nord impareranno prima o poi la lezione e si apriranno a logiche più inclusive è complicato da dire, e stasera anche da credere. Ci sono però, invece, lezioni che possiamo imparare noi, italiani e, per noi che scriviamo da quassù, cittadini milanesi.
Il peso politico si costruisce e si mantiene con pazienza, sapienza e furbizia. La politica è anche sempre una partita a scacchi, e chi frequenta l’Europa sa che lo è anche di più. Litigare e urlare si può, ma bisogna sapere calcolare sempre con attenzione i mezzi in campo, la forza propria e quella degli avversari. Farlo credendo di ottenere qualche contropartita o, peggio, un po’ di consenso domestico rischia di essere inutile per questi bassi scopi, e pure controproducente quando si giocano partite di lungo periodo come questa.
Infine, una lezione a Milano, la nostra città. Da qualche anno – indubbiamente meritatamente – siamo sulla bocca di tutti in un modo piacevole e a cui non eravamo abituati. Siamo la città che ha fatto Expo, la città da cui è iniziata davvero la “fine” (le virgolette sono più che mai obbligatorie) di un ciclo politico berlusconiano che era arrivato allo stremo delle forze, sue e nostre, la città che attrae investimenti, la città che funziona e in cui si danno chiaramente opportunità di crescita e sviluppo. Tutto chiaro, tutto vero. Stavamo per dimenticarci, però, che non siamo (almeno per ora) una città stato che può fare a meno del suo paese. E anche che non può, e soprattuto non dovrebbe, dimenticarsi del fatto che al resto del paese e delle istituzioni continua a dovere qualcosa. Senza un governo che ci ha creduto non sarebbe arrivato Expo. Senza un governo che ci ha lavorato non si sarebbe arrivati alla sfortunata monetina di oggi. Ogni tanto, con l’orecchio appoggiato a terra, sentiamo anche che, come sempre quando si sparge il seme dell’ammirazione, arriva anche quello del risentimento, portato da un vento che soffia d’improvviso al contrario. Questa sensazione di fastidio per la città che piace, popolata da gente che piace, e alla quale continuano ad arrivare importanti investiture (e capitali) pubblici, si sta spargendo.
Questa sconfitta amara, allora, è l’occasione per riconsiderare il ruolo di una città all’interno di un sistema più ampio. E di decidere se essere una vera capitale morale, come si diceva un tempo, che si tira dietro un paese e che magari lo guida anche ad acquisire altro peso e altra considerazione in Europa, o un pianeta solitario che tende sempre di più a camminare da solo. È una scelta importante, non è il caso di affidarla a una monetina.
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