Milano
Milano è l’unica ad aver piegato Renzi (lui un giorno capirà e ringrazierà)
Se permettete parliamo di noi. Noi milanesi che stiamo tre metri sopra Roma, se dobbiamo prendere Roma ancora a paradigma dello scontro. E onestamente no. Roma ormai è preistoria e intripparsi nelle vecchie logiche è persino poco elegante, prima ancora che poco intelligente. Noi milanesi, invece, avremmo da dire un paio di cose più in generale sulla piega che stanno prendendo le questioni cittadine, che sono poi il nuovo sindaco, le primarie del Pd, il Beppe Sala, la Balzani, il Majorino, il buon Pisapia, il rapporto con Renzi (e qui se vogliamo rientra Roma). Ci perdonerà il biodegradabile Fiano, primo esempio di candidato nebulizzatosi con lo scorrere dei giorni.
Qualcosa non torna, meglio dirlo subito. Nel senso che i nomi, la battaglia sui nomi, sovrasterebbe il senso più alto di una società organizzata (bene) come la nostra. La quale vorrebbe richiamare l’attenzione della platea su un elemento centrale, che troppo spesso viene dimenticato o, meglio, sottovalutato: Milano è stata in grado di piegare Renzi sul terreno della politica, in un solo concetto non ha preso ordini, semmai ha imposto una linea. Lo ha fatto senza anarchismi, né colpi di testa, né secessioni fesse in salsetta leghista. Se il Pd può ancora orgogliosamente chiamarsi Democratico lo deve anche (e soprattutto) a Milano che non ha sbandato, che ha tenuto il punto sulla necessità assoluta di interpellare i suoi cittadini nelle questioni più importanti della città. Se la memoria vi inganna, allora sarà bene ricordare che se primarie oneste e consapevoli si terranno su tutto il territorio nazionale non è per gentile concessione di Matteo Renzi, il quale invero le avrebbe serenamente tolte di mezzo, ma per il pudore e la dignità dei milanesi ai quali uno scippo violento e intollerabile come quello avrebbe significato una sollevazione popolare. E naturalmente, ogni buona azione ha anche il suo grimaldello politico. In questo caso, lo sguardo lungo di Pierfrancesco Majorino, che in tempi ancora molto anonimi e dispersivi piazzò sul campo di gioco la sua bandierina. Ora, non sappiamo oggi le deliberazioni finali dell’assessore Majo rispetto al farsi da parte o procedere comunque, ma non c’è dubbio che senza quella mossa provvida, provvidissima, oggi saremmo qui a parlare solo del C.U. di destra e sinistra, il Candidato Unico a Palazzo Marino, dottor Beppe Sala.
Se Milano ha dettato la linea all’ufficio centrale, dove per ufficio centrale intendiamo Palazzo Chigi, non è certo per il buon esito di Expo. Non solo almeno. La narrazione dominante dice questo. Ma è un falso. La narrazione appena più verosimile racconta che la definizione più piena s’ebbe il primo giorno di Expo, quel Primo Maggio del Maggio milanese, tanto per sentirsi un po’ storia. Ci mise i piedi in faccia, la feccia black bloc, buttò all’aria il centro cittadino, spaccò, devastò. Usarono il dì di festa per rovinare tutto, per sfregiare l’orgoglio cittadino. Sbagliarono i conti, ma non perché Roma era Roma e il Potere ne piegò le velleità. No, niente politica. Solo questione di sapone, spugne e ramazze, di dignità violata e riconquistata. Il giorno dopo Milano era di nuovo bella per come i milanesi l’avevano immaginata e rispettata in tutti gli anni del riscatto. Quel giorno, perdonate l’eccesso snobistico, per noi milanesi Expo era sostanzialmente finito. Il fierone era a disposizione degli altri.
Quando Matteo Renzi ha dovuto pensare a Milano ha pensato subito a Expo e non alla storia cittadina, alla cavalcata di questi sei mesi, all’uomo che montava quel destriero non più disturbato – previo accordo con la Procura di Milano – da fastidiose indagini giudiziarie. Insomma, una moratoria a “fin di bene”. Non che fosse una colpa il ridurre Milano a quell’evento comunque planetario, ma certo era un approdo semplice e comodo per un toscano che non conosceva Milano e che cercava meno rogne possibile per sé e per il Pd. Così ha benedetto il commissario in men che non si dica, inviando succedanei di sé, tipo l’andreottiano Guerini, a spiegare ai dirigenti lombardi che si piegassero ai voleri superiori della nazione (o del partito della) che richiedevano l’uomo solo al comando e nessuno al suo inseguimento. Se solo Guerini si fosse presentato in qualche luogo men che politico, con quelle pretese sciocche e arroganti ce lo saremmo mangiato.
Per fortuna c’era anche quel “piede nella porta”, definizione felice di Jacopo Tondelli, di Pierfrancesco Majorino che ha riportato il sentimento cittadino nella sua giusta e onesta condizione. Qui non si subiscono candidati e meno che mai da Roma! Questa, al fine, è una storia bellissima di cui anche il presidente del Consiglio dovrebbe andare orgoglioso, perché ha riportato sulla retta via innanzitutto lui, mostrandolo democratico per quel che ancora non è, e poi ha restituito al Partito Democratico quella condizione di minima serenità per battersi in primarie aperte e consapevoli.
Adesso ok, è lotta di nomi, Sala, Pisapia, Balzani, Majorino. Ma stanno sullo sfondo, come ombre che avanzano nella nebbia. La vecchia, cara, nebbia di noi milanesi che finalmente è tornata.
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