Milano

Il 25 aprile dimenticato: Luigi Campegi, improbabile eroe con la giacchetta

25 Aprile 2017

Milano, 14 settembre 1944.

Oggi forse leggiamo questa data pensando che alla fine della guerra mancavano solo sei mesi: ma da un qualsiasi punto di vista immerso nella Milano di quel settembre, sei mesi abbondanti assomigliavano a una sentenza di morte.

La citta’ era allo stremo. Dilaniata dai bombardamenti, mancava ovunque l’acqua, il cibo, i servizi igienici, il riscaldamento –  e d’inverno avrebbe fatto un freddo cane, altro che le palme in Duomo. Ad ogni angolo di strada sentivi la paura, della gente normale ma anche quella pericolosissima dei tedeschi che – intuendo la fine –  non volevano andare all’inferno in silenzio.

E poi chi poteva essere certo che la guerra sarebbe finita davvero? Quell’arma che si vociferava fosse in grado di radere al suolo una citta’, Hitler ce l’aveva veramente? Senza contare che, di li a poco, l’ultima offensiva tedesca sulle Ardenne sembrava dar ragione alle Cassandre piu’ pessimiste.

In questo quadro, la lotta partigiana dei GAP – Gruppi d’Azione Patriottica – aveva essenzialmente un obiettivo. Male armati e  poco numerosi, con il rischio di finire nel migliore dei casi fucilati e nel peggiore torturati e deportati, i partigiani sapevano di non poter ambire a cacciare l’invasore solo con le proprie forze. Ma sapevano anche che era grazie alla loro lotta, unita alle parole e ai discorsi che si ascoltavano alla radio di nascosto, se Milano era ancora viva, se la gente – nonostante la fame, il freddo, i lutti – teneva ancora accesa la speranza.

Eppure quel settembre la situazione e’ tragica sul serio. Il compagno “Arconati” e’ l’ultimo di una lunga serie ad aver tradito. Le sue delazioni ai tedeschi hanno portato alla cattura di Mattei, Di Vona, di tutti gli elementi fondamentali. Perfino il Comandante Giovanni Pesce – il mitologico “Visone” – e’ stato fatto allontanare per sicurezza dopo essere sopravvissuto chissa’ come a una trappola in Piazza Argentina.

Il Comando centrale ha capito che la fine della Guerra non accadra’ in autunno. Dovra’ passare un altro inverno: centottanta giorni, centottanta notti. Gli uomini migliori vanno preservati per la Campagna di Primavera, ma nello stesso tempo la lotta non si puo’ fermare. E qui entra in scena Luigi Campegi, l’improbabile Eroe con la giacchetta.

31 anni, da Tromello in provincia di Pavia, Campegi non e’ nemmeno comunista e la Marcia su Roma neppure la ricorda.

E’ iscritto al Partito d’Azione dal 1943 – ovvero da quando chi voleva capire da che parte stava la liberta’ lo aveva ormai capito benissimo. A giugno e’ stato nominato responsabile militare del V settore clandestino, quello piu’ grosso, che parte dal viale che oggi delimita Area C tra Porta Venezia e Porta Romana, scende lungo Corso Lodi fino a Rogoredo, taglia dentro fino all’Ortica e da Lambrate risale Corso Buenos Aires.

Con pochissimi mezzi e solo un manipolo di uomini a disposizione, Campegi e’ un novellino della lotta armata eppure le sue azioni finiscono sul taccuino di tutti i capi delle SS di stanza all’Hotel Regina – l’hotel a pochi passi da piazza della Scala che in citta’ viene chiamato, sussurrando, “Hotel Gestapo”.

Assunto il pieno comando della lotta cittadina, Campegi e i suoi ai nazisti non danno tregua: il 6 ottobre distrugge il magazzino di armi e vestiti della X Mas in Piazza Fiume (oggi Piazza della Repubblica); il giorno dopo fa saltare in aria il ristorante ritrovo dei nazisti vicino al Lazzaretto; il 12 attacca un autorimessa di blindati tedeschi e il 13 distrugge l’impianto antiaereo del Reich di Piazzale Loreto.

Sono scatenati. Sono un gruppo di ragazzi senza alcuna esperienza, senza ideologia se non quella della liberta’. A Milano la Resistenza sono loro. La Speranza sono loro.

Purtroppo, dopo 5 anni di guerra, dopo tutti gli orrori dei nazisti e dalla Mutti, la liberta’ e la lotta hanno una sapore cosi’ inebriante che finiscono per offuscare il giudizio. I ragazzi abbassano la guardia, commettono leggerezze, si espongono a troppi rischi. Andrebbero aiutati, magari sostituiti ma  il Comando centrale e’ irremovibile: Campegi e i suoi stanno svolgendo un mero ruolo di supplenza, che se la cavino da soli.

E loro non arretrano di un millimetro: l’1 novembre lanciano una bottiglia incendiaria contro un blindato tedesco in piazzale Bacone, il 2 raffica di mitra contro i tedeschi alla Bicocca, il 3 bombe contro il comando nazista di via Benedetto Marcello.

Eppure le loro condizioni di vita sono terrificanti. Il partito non fornisce loro le false tessere dell’annonaria, per potersi approvvigionare del poco cibo a disposizione. Campegi e gli altri vivono grazie al buon cuore della gente che di notte, senza farsi notare, lascia alle finestre e fuori dall’uscio di casa del pane e dei cartoncini di latte. Ma non e’ solo la fame: ci sono le biciclette sgangherate con cui sono costretti a muoversi per la citta’, le scarpe sfondate, i vestiti sporchi e sgualciti che li rendono riconoscibilissimi, gli alloggi sicuri che scarseggiano; per due settimane di fila sono costretti a dormire al freddo del Parco Lambro – con 2 gradi fissi di media.

Luigi rischia ogni notte di morire assiderato. Possiede solo una giacchetta spinata, troppo leggera e troppo lisa. Talmente malmessa che i tedeschi ormai hanno imparato a riconoscerla. Dovrebbe togliersela, cambiarla, ma non ne possiede altre.

Ben presto la situazione precipita. Il gruppo viene identificato dai nazisti e finalmente, il Comando centrale decide di spostarli. Luigi e’ inviato in montagna, dove pero’ fa ancora piu’ freddo, e a proteggerlo c’e’ sempre solo la giacchetta spinata. Inoltre, proprio nel dicembre del ’44, i tedeschi iniziano un’opera di rastrellamenti furiosa nelle montagne lombarde e Campegi e’ costretto a scappare ogni notte di rifugio in rifugio. Nel freddo delle valli, si ammala gravemente: polmonite, febbre, una terribile adenite inguinale che gli impedisce di correre. Potrebbe darsi alla macchia e invece no: quando il Comando chiama, lui risponde. Sempre.

Alla fine di dicembre lo mandano di nuovo a Milano, dove i nazisti lo cercano, a ritirare due mitragliatrici da una fabbrica. In Brianza lo fermano per un rastrellamento: gli ufficiali nazisti non lo riconoscono e puo’ proseguire. Entra in citta’ stremato, distrutto dalla fama e dalla malattia. Milano non gli porta bene: sette poliziotti accerchiano lui e il suo sodale Brambilla in Viale Abruzzi.

Calma. Non pensare, non pensare, non pensare. Campegi e Brambilla mostrano due tesserini da finanzieri falsi. Sorridono. E’ l’estrema ratio, da usare solo in casi disperati. I poliziotti li conducono a un bar nei paraggi per “accertamenti”.

Brambilla finge di telefonare al Comando, offre da bere “ai colleghi” per prendere tempo – Campegi nel frattempo sta pregando. Il barista serve i bicchieri, Brambilla guarda Luigi: cenno d’intesa, i bicchieri finiscono contro la faccia dei poliziotti, Campegi si lancia fuori ma nella fuga urta Brambilla! E allora si ferma, lo fa rialzare ma l’indecisione gli e’ fatale. Mentre Brambilla scappa, rifugiandosi in una casa bombardata in via Donatello, Campegi viene arrestato.

Sembra finita, ma in caserma ecco una speranza: nessuno lo ha riconosciuto. L’accusa e’ solo di documenti falsi. Del resto e’ talmente pallido e emaciato che piu’ che un partigiano sembra un senzatetto. Poi qualcuno osserva con attenzione quel cencio che si porta addosso: e’ una giacchetta spinata.

Il 29 gennaio Luigi Campegi viene condannato a morte e il 2 febbraio e’ fucilato nei pressi del campo Giuriati. I suoi compagni hanno tentato un ultimo, disperato tentativo per salvarlo in via Bassini, purtroppo senza successo. Quando stramazza al suolo coperto di sangue, ha ancora addosso la giacchetta.

La storia di Campegi, se possibile, finisce ancora peggio: in quel terribile e grottesco equivoco del Dopo-Guerra, la retorica comunista impone di presentare i Partigiani come infallibili eroi e non come uomini eroici. E Campegi, per il partito, era solo un supplente pasticcione, un giovane inesperto e, per giunta, uno che neppure era stato comunista.

Cosi’ scompare dalle cronache ufficiali diventando l’Eroe Anonimo, il partigiano di cui, ancora fino al 1986, praticamente nessuno conosceva l’esistenza e il sacrificio.
Si e’ molto scritto e molto si scrivera’ per chissa’ quanto tempo sui giovani italiani che fecero “una scelta sbagliata”, che nel fiore degli anni furono traditi dalla gioventu’ e non capirono la reale portata degli eventi. A nostro modo di vedere, se questo ragionamento e’ valido per quel che riguarda gli anni ’20, lo stesso non si puo’ dire per il 1943; e se un qualche tipo di ignoranza si puo’ ipotizzare per chi viveva in provincia, chi viveva vicino a una citta’ come Milano di dubbi non poteva averne neppure mezzo. A Milano, nel 1943, tutti sapevano cosa accadeva dentro l’Hotel Gestapo o nella caserma della  Muti di via Rovello. Tutti.

C’e’ stato chi ha fatto la scelta di Luigi, e c’e’ stato chi ha fatto la scelta opposta (come Dario, per esempio). Tra questi ultimi, molti hanno avuto modo di ricredersi, di riscattarsi, di espiare nel corso della vita.

Luigi Campegi no. Per la sua scelta prima e’ morto, poi e’ stato buttato fuori dal Pantheon degli Eroi.

Il nostro affetto eterno a chi fece la scelta di Luigi e poi mori’, senza chiedere alla Storia nulla in cambio, neppure una giacchetta nuova.

P.S. Per approfondire non solo in occasione del XXV aprile, suggeriamo davvero i libri di Luigi Borgomaneri, e in particolare “Li chiamavano terroristi” e “Due inverni, un’estate e la rossa primavera”.

Storie incredibili e dimenticate che, sforzandoci per un attimo di guardare le cose con distacco, si rivelano piu’ avvicenti e appassionanti delle moderne Serie TV. Anzi, noi ne siamo certi: in altri Paesi queste storie sarebbero sicuramente materiale per serie TV, diventando parte della cultura e  della  coscienza civica condivisa. Peccato che da noi queste cose siano lasciate solo alle idee di Stefano Accorsi.

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