Medio Oriente
La pretesa della Turchia: decidere quando, come e se parlare di genocidio armeno
Non è vero che in Turchia non si possa parlare di genocidio armeno. Per dimostrarlo è sufficiente ricordare due dati:
1) Un tempo chi usava il termine genocidio rispetto ai fatti del 1915 rischiava di andare in galera. Quando nel 2005 il Premio Nobel Ferit Orhan Pamuk ha posto pubblicamente la questione chiedendo una riflessione pubblica sul genocidio è andato sotto processo ma non andato in galera. Forse mettere in galera un Premio Nobel sarebbe stato un boomerang e dunque questo fu il motivo essenziale. In ogni caso non andò in galera.
2) Nel 2012, esce in Turchia il libro 1915, il Genocidio Armeno di Hasan Cemal, giornalista nipote di Cemal Pasha, architetto delle violenze perpetrate a danno della minoranza armena sul finire dell’impero ottomano. Hasan Cesal in quel libro affronta per la prima volta le responsabilità del movimento dei Giovani Turchi senza reticenze. Anche in questo caso niente carcere e, soprattutto, niente censura.
Conclusione: in Turchia non si va in galera se si dice genocidio armeno. Ma la Turchia non vuole che nessuno ne parli fuori dalla Turchia.
Il tema a me pare il seguente: quello cui ci troviamo di fronte non è un atteggiamento negazionista, ma è indicatore di una mentalità politica. Il problema non è meno grave.
Provo a sintetizzarla a partire dalla dinamica di quel genocidio.
Il genocidio armeno ha alcune caratteristiche che lo rendono paradigmatico: le marce forzate; l’uccisione degli uomini, la deportazione verso il nulla di donne, vecchi e bambini, le violenze sui corpi dei sopravvissuti. Ma soprattutto quel genocidio obbliga a discutere di un processo lungo che definisce, nell’arco di un quarantennio tra anni ’80 dell’Ottocento e anni venti del Novecento, l’identità culturale e politica della democrazia turca così come ancora oggi si presenta a noi.
A cento anni esatti, quel genocidio dice molte cose del nostro presente. Le dice ancora in prossimità di quell’area, e lo dice anche in merito alle scelte politiche di quel sistema politico nell’area limitrofa. Per esempio in merito a ciò che avviene a Kobane.
Oggi chi chiede conto e di entrare nei fatti di allora, riceve una risposta eguale a quella che la nomenclatura sovietica e il cittadino sovietico medio davano negli anni ’70 a chiunque nominava la parola GULag, ovvero invocando il complotto, i nemici, le forze occulte. Insomma tutto il bagaglio del vittimismo aggressivo. Anche questo è un pezzo di quell’attrezzatura culturale che a partire dai primi anni del Novecento ha aiutato non poco a costruire la macchina operativa ed efficiente dei bravi esecutori di genocidi. Soprattutto di quelli che non vogliono pubblicamente fare i conti con il passato.
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