Medio Oriente
Cinque anni fa scoppiava la primavera araba, oggi resta solo un triste inverno
Il 17 dicembre 2010, per qualche tempo, ha rischiato di diventare una di quelle date profonde, quando la storia incrocia la Storia, e si rende eterna. E la storia, quando passa, non bada ai dettagli. E anche Sidi Bouzid, poco meno di 40mila anime, inchiodate nella Tunisia profonda, va bene come sfondo per un evento epocale.
Puoi passare alla storia anche se ti chiami Mohamed Bouazizi, hai 26 anni, e una vita senza futuro e senza speranze. Il bivio è quello di una generazione intera: emigrare o sopravvivere. Mohamed, a Sidi Bouzid, tira a campare spingendo un carretto da venditore ambulante. Abituato a convivere con l’arroganza del potere, che si declina in proporzione alla tua vita.
Per quanto tu sia costretto in basso, c’è qualcuno sopra di te. Magari il poliziotto di quartiere. Il gioco è sempre quello, pagare anche solo per campare, ma di fronte a colui che siede sopra di te, devi chinare la testa. Così, come una piramide umana di dimessi, di vinti. E solo che quel giorno la rabbia è una miccia, Mohamed reagisce, si immola. Poteva finire così, ma è scoppiato un incendio che, comunque, ha cambiato un pezzo di mondo.
L’hanno chiamata primavera araba, in tanti oggi la definiscono un triste inverno, di certo c’è stata un’insurrezione, di sicuro c’è stata una controrivoluzione sanguinosa. Allo stesso tempo confondere i simboli e i contenuti è ingenuo, non è Mohamed che ha fatto tutto questo, ma l’onda è partita. Per molti erano altrove le mani che spingevano, per altri erano parte di un disegno prestabilito.
Tutto, e niente. Ma solo chi ha frequentato certe malinconie, certe disillusioni, quel senso di claustrofobia nel quale ti relegavano i regimi di padroni che sembravano eterni, assieme ai loro clan mafiosi, puoi capire il fuoco che covava sotto la cenere. E che cinque anni fa ha preso fuoco.
Ed oggi, guardandosi attorno, erano altre le speranze. Ma molte cose sono cambiate, mentre non è cambiata l’incapacità – colpevole o voluta – delle cancellerie europee e degli Stati Uniti di puntare sempre sul cavallo sbagliato, abbandonando al loro destino chi potrebbe cambiare il destino di un universo che ha molto da dire.
Maghreb. È proprio qui che è iniziata. In Tunisia, appunto. Oggi a Tunisi è come vivere trattenendo il fiato. In bilico tra lo stato d’emergenza, un attacco al Bardo o a una struttura turistica, mentre la vita va avanti raccontandosi che le cose sono andate meglio che altrove. E con un Nobel per la Pace a far da fermaporta, per chiudere fuori le paure. Ma Ben Alì e la sua cricca sono andati via e nessuno, ma proprio nessuno, l’avrebbe detto nel 2011. E invece è successo. Bisogna andare avanti, tener duro, rialzandosi quando cadi. Ma la speranza non abitava più in Tunisia dai tempi dell’indipendenza. Per il Marocco, invece, il 2011 è stato un soffio di vento. Un movimento di protesta, tra le pieghe di una colonia che al mondo nessuno denuncia, il Sahara Occidentale, e un blocco islamista che premeva dal basso. Il re Mohammed VI è allergico alla democrazia come tutta la sua famiglia, ma ha fiutato come venire a patti con una parte dei suoi oppositori, dividendoli, e consegnando il Paese a se stesso e a una stabilità ammirata e sostenuta da Ue e Usa.
L’Algeria, invece, è come un gigante che dorme. In tanti, nel 2011, erano pieni di rabbia. Ma le ferite della guerra civile degli anni Novanta, costata la vita a una generazione, erano ancora troppo vive. Non si è mosso praticamente nulla. Ed è ancora così. Anche se il presidente Abdelaziz Boutlefika è sempre più malato e lontano, e la lotta per la successione, tra due generazioni di potenti, non sarà indolore. E potrebbe essere la primavera che verrà.
Libia. Ammesso che una Libia sia mai esistita, oggi non c’è più. Due governi. Due parlamenti. Centoquaranta clan tribali. Duecentotrenta milizie armate. Oltre Daesh. La Libia è, in senso contemporaneo, uno ‘stato fallito’. Il patto di interessi che ha costituto la base della dittatura quarantennale del colonnello Muammar Gheddafi si è rotto, perché nessuno è in grado di andare oltre gli interessi petroliferi, italiani e francesi in primis, e di vedere un interesse comune a stare assieme e a dividere potere e risorse. Il generale Haftar da una parte, sostenuto dall’Egitto e non solo, una parte del blocco islamista dall’altra, con in mezzo un popolo poco numeroso, legato alle fedeltà di sempre, in una lotta che sbrana sempre di più il paese. Rimpiangere il colonnello è lo spirito di questi tempi, che cela due verità: la prima è quella di dipingere come dittatore/guida illuminata la stessa persona in un cortocircuito che racconta dei nostri interessi. L’altra è quel non detto razzista di fondo: non possono che avere un dittatore. Non è così, ma fa comodo pensarlo. Almeno fino a quando si lavora a dividere sempre più quel che è già diviso.
Egitto. È forse la pagina più nera della stagione iniziata cinque anni fa. Il regime di Mubarak aveva tolto i sogni a milioni di persone, ma piazza Tahrir è stata un esempio storico di insurrezione e di coraggio. Al di là di tutti i complottismi del mondo, le energie sprigionate da quella piazza – almeno per chi ha avuto la fortuna di viverla – sono state straordinarie. Ma la controrivoluzione ha colpito duro, durissimo. Il generale al-Sisi ha spodestato il presidente Morsi, eletto democraticamente, nel silenzio complice e colpevole di Usa e Ue. Ha massacrato migliaia di attivisti, ha buttato in carcere giornalisti e Fratelli Musulmani. E’ molto peggio di come era ai tempi di Mubarak. E mentre al vecchio Faraone, quando esagerava, si chiedeva moderazione, al-Sisi si muove libero di distruggere vite e sogni, venendo ricevuto come un grande statista. E’ notte fonda al Cairo.
Siria, Libano, Giordania. L’insurrezione siriana del 2011 ci inchioda alla nostra indifferenza. Tutta la generazione che ha detto basta, scendendo disarmata in piazza, è stata abbandonata al suo destino. Il regime di Assad, che dal 2000 veniva implorato dall’opposizione democratica di cambiare le cose, ha reagito come un assassino, lanciando le truppe contro il suo stesso popolo. Condanne, appoggio militare, sostegno economico all’opposizione. Solo che in Siria ciascuno ha sostenuto la ‘sua’ opposizione, abbandonando al suo destino il popolo siriano. E oggi, in Siria, è in corso una guerra globale. Decine di paesi combattono, altrettanti sostengono i proprio gruppi armati, mentre 250mila persone sono morte e milioni di persone sono in fuga. Anche qui, l’aria che tira è quella di accontentarsi di Assad come del male minore. Uccidendo tutte quelle persone un’altra volta.
Il vicino della Siria è quel Libano che da sempre vive un destino legato a doppio filo a Damasco. Per ora, con grande fatica, a strappi dolorosi, tiene. Se pensate che Hezbollah, tessera chiave del complesso mosaico libanese, è coinvolta nella guerra siriana fino ai capelli, capite quando sia difficile tener lontana la guerra per Beirut. Nel 2011 le proteste furono poche e sporadiche; anche in Libano le ferite della guerra civile finita nel 1990 e le macerie della guerra del 2006 erano troppo recenti per salti nel buio, ma il movimento YouSink di questi giorni è un sintomo di malessere che cova sotto la cenere della paura della guerra. Ad Amman, invece, nel 2011 le proteste furono più significative. Ma la Giordania stessa esiste attorno alla casa reale e i grandi capi delle famiglie locali non hanno mai voluto davvero che l’equilibrio del paese venisse scosso. La Giordania partecipa alla colazione anti-Daesh e questo potrebbe attirarle degli scossoni interni, ma per ora tutto tace.
Nicholas Sarkozy, Hosni Mubarak e Ben Alì
Nel Golfo Persico tutto ruota attorno ai sauditi. Per la prima volta nella sua storia, Riad è intervenuta militarmente in Bahrein prima e in Yemen dopo. Nel primo caso, come nel secondo caso, l’ossessione saudita per l’Iran è stato il denominatore comune. La maggioranza sciita del Bahrein, governata dal clan sunnita, ha provato in tutti i modi a chiedere pari diritti, ma è stata massacrata. In Yemen, la frattura è ancora più evidente. Saleh, dopo decenni di potere, fuggito, ma il suo successore si è ritrovato il paese in fiamme, chiamando i pompieri sauditi. E sono almeno 6mila i civili yemeniti morti nel conflitto. Il dramma dello Yemen, dopo l’insurrezione, è stato di aver abbandonato il Paese al suo destino. Lo strapotere saudita, a cui nessuno a Washington o a Bruxelles chiede conto, ma che anzi foraggia di armi di ogni tipo, sembra sempre più aggressivo. E la distensione con l’Iran degli Stati Uniti preoccupa, e fomenta sempre più, i Saud. Anche i movimenti di protesta minori dell’epoca in Kuwait e Oman non hanno lasciato traccia, come se una minaccia pendesse sulla testa di tutti i vicini dell’Arabia Saudita.
George W. Bush e Abdullah Saleh
La sensazione è quella di un freddo e triste autunno, ma non bisogna ignorare che grandi fatti sono accaduti. Solo cinque anni fa, era impensabile immaginare che Ben Alì, Mubarak, Gheddafi e Saleh potessero essere rimossi. Le energie che si sono scatenate all’epoca, soffocate, ferite, imprigionate, uccise, hanno però lasciato un segno. Quello più grande: si può fare. E se non oggi, dove gli interessi in gioco sono enormi, un domani c’è una generazione intera che ha alzato la testa, che ha immaginato di non dover ubbidire sempre e comunque, che per la prima volta nella sua vita ha conosciuto una stampa plurale. Il quadro è fosco, inutile nasconderlo. Ma quel che ha bruciato una volta, può bruciare ancora. Con la speranza che questa volta, in Europa e in America, si abbia il coraggio di non voler scegliere per le vite degli altri. E che si abbia il coraggio di appoggiare l’anima migliore di un mondo che ha tanto da dare, se solo non dovesse sempre combattere contro il peggio che la realpolitik sa esprimere.
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