Medio Oriente

Il vero pericolo non è l’Isis in Libia ma il terrorismo in Europa

19 Febbraio 2015

(fotografia di copertina di Alessandro Ingaria, miliziano del free Free Syrian Army)

La conquista di Derna da parte di una milizia che ha dichiarato la sottomissione al califfo Al – Baghdadi, divenendo quindi parte di ISIS, ha scatenato angoscia in Italia circa la situazione libica e il potenziale pericolo nei confronti del nostro paese. Nell’atmosfera di paura nella quale gli europei vivono dai fatti di Parigi, si fanno accostamenti tra situazioni diverse e proposte spesso inadeguate. Il discorso corretto da fare non è quello della contrapposizione tra guerrafondai e pacifisti, ma la risposta adeguata da dare alla crisi libica, il potenziale che essa ha di trasformarsi in un problema per i vicini sia del Nord Africa sia del Sud del Mediterraneo e quanto reale sia il pericolo di ISIS nella nostra regione. Risposte emotive e precipitose di certo non servono ad affrontare adeguatamente la situazione. Su queste pagine, Stefano Iannaccone, intervistando Stefano Torelli, Gianfranco Belgrano e Giancarlo Villa hanno già scritto cose utili. Io cercherò di ampliare il discorso inserendo i rischi libici nell’ambito delle lezioni apprese in Iraq e Afghanistan nell’ultimo quindicennio e alla luce della nuova realtà di ISIS, che va capita per poter essere adeguatamente combattuta.

La principale lezione che gli interventi in Afghanistan e Iraq ci hanno lasciato è che senza un’adeguata analisi della situazione sul campo, è ben difficile elaborare piani d’azione che servano: in entrambi i casi, si presero decisioni e si adottarono modalità operative non funzionali alla situazione sul terreno, ma a quella “inventata” nelle capitali: in quei due casi, si preferì adottare una visione che faceva politicamente comodo in casa, anziché’ avere l’umiltà di ascoltare chi era sul terreno ed era familiarizzato con quanto vi succedeva.
L’Afghanistan avrebbe potuto costituire uno straordinario esempio di nation – building con potenziali effetti di stabilizzazione in una regione da sempre conflittuale: il ristabilimento dello stato afgano e un sostanziale miglioramento delle condizioni della vita della popolazione dopo decenni di guerra civile e il regime dei talebani avrebbero potuto fare moltissimo pe migliorare i rapporti tra Occidente e Islam.

L’avere invece giocato sempre al ribasso in Afghanistan, prendendo la sciagurata decisione di foraggiare i signori della guerra anziché dare priorità alla costruzione d’uno stato moderno ed economicamente sostenibile, nonché rinunciare a sconfiggere una volta per tutti i talebani concentrando gli sforzi solo su Al Qaeda (punire Bin Laden era l’unico obiettivo che sembrava contare) risultò inadeguato. Dopo quattordici anni di presenza e ingentissimi investimenti, la situazione in Afghanistan rimane assai precaria: anche se il governo d’unità nazionale apre qualche prospettiva positiva, il numero di terroristi nel mondo è aumentato esponenzialmente rispetto al pre – 11 settembre e la distanza tra islam e Occidente non è mai stata così ampia.
In Iraq, l’ostinarsi in un modello di state – building copiato pedissequamente dal diversissimo modello americano, che nulla ha a che vedere con la realtà irachena, e l’esautoramento dei sunniti a favore degli sciiti ha alterato i dati dell’equazione regionale, scoperchiando un vaso di pandora le cui conseguenze stiamo ancora pagando adesso.
L’ascesa di ISIS, la versione più spietata dell’integralismo islamico di stampo wahahabita, è conseguenza diretta di quelle scelte dissennate, poi continuate nel continuo procrastinare di decisioni in Siria, fino a perdere ogni possibilità d’influire su quello scenario. La nuova franchigia ISIS si è sviluppata e rafforzata proprio nel territorio a cavallo tra Siria e Iraq, raggiungendo Kobane e proiettando ombre su tutto lo scenario medio orientale.

Per valutare l’entità dell’attuale pericolo libico, è necessario capire cosa sia ISIS. L’unica cosa positiva del radicalismo islamico è che si tratta di fenomeno molto diversificato, i cui scenari sono molto dinamici, come un mare sempre in movimento. Il punto chiave della concezione wahhabita dell’Islam è l’esistenza del califfato, unità religiosa – politica in cui vi è spazio solo per l’islamismo sunnita, nel quale le religioni politeiste vanno eliminate fisicamente, e le altre monoteiste, compresi sciiti, ismaeliti ed altre famiglie islamiche “non ortodosse”, sottomesse.

Fino all’apparizione di Isis tra Siria e Iraq, il califfo che godeva di maggior riconoscimento era Mullah Omar, emiro dell’Afghanistan e capo della grande nazione islamica, particolarmente seguito in Afghanistan e in Pakistan, specie nei territori tribali. Di Omar, che dopo la caduta di Kabul si rifugiò in Pakistan, da tempo non si sa più nulla: la sua morte non è mai stata dichiarata ma non si fa sentire da tempo. Questo ha permesso la formazione di un califfato alternativo, quello adesso capeggiato da Al -Baghdadi, proclamatosi califfo. La spettacolarità dell’ascesa militare di ISIS (conosciuta come Daesh nel mondo arabo) ha provocato movimenti tellurici nel mondo dell’integralismo islamico: la sigla Al Qaeda, anch’essa di per se’ non organizzazione unitaria ma una rete di gruppi slegati tra loro e uniti da un comune giuramento di sottomissione. Sullo scenario siriano, Al Qaeda e ISIS sono nemici, con obbedienze diverse (Al Qaeda è legata al califfato afghano, l’unico che è pervenuto a gestire il potere in un intero paese) e si combattono.

La concorrenza tra Al Qaeda e la nuova franchigia ISIS si è estesa in tutto il mondo mussulmano, allargandosi all’Africa sub sahariana, dove fino a dieci anni l’integralismo aveva scarso acchito presenza e ultimamente è emerso Boko Haram. Alcuni mullah pakistani hanno abbandonato la leadership afghana del silenzioso Omar e, in cerca delle risorse di ISIS hanno dichiarato la loro sottomissione ad Al – Bagdhadi. In Libia, milizie preesistenti, rafforzate dalla confusione dello scenario post – Gheddafi, hanno recentemente dichiarato la loro sottomissione a ISIS: si tratta del gruppo di Derna, composto da un migliaio di militanti, che tanto scalpore ha creato la settimana scorsa. Non si tratta quindi di militanti di ISIS dall’Iraq e dalla Siria, ma di milizie che hanno semplicemente cambiato nome e bandiera, fenomeno frequente nella galassia islamica, in cerca di legittimità, un fattore fondamentale in quell’universo, e finanziamenti: ISIS controlla territorio e risorse e può permettersi di stipendiare nuovi militanti. Pare con somme tra i mille e duemila dollari al mese, quantità allettante tra rifugiati e disoccupati del mondo islamico.

L’eventuale controllo di pozzi anche in Libia potrebbe costituire un ulteriore incentivo, ma non si vede come e perché’ i gruppi legati ISIS potrebbero interessarsi ad attaccare il territorio di un paese europeo. Ne’ lo possono fare (stiamo parlando di un migliaio di uomini con limitazioni logistiche e interessi in territorio libico) ne’ hanno un evidente interesse a farlo.
Nella narrativa di questi giorni si fa d’ogni erba un fascio: in maniera simile a quando qualche mese fa si farneticava del possibile contagio di Ebola attraverso i barconi d’emigranti illegali che arrivano nel nostro paese, senza considerare che una persona contagiata da Ebola in Africa occidentale non è in condizioni fisiche per giungere sano sulle coste mediterranee, rendendo quel meccanismo di contagio del tutto virtuale, oggi si paventa la possibilità’ di militanti di ISIS nei barconi. Teoricamente meno impossibile di quella dei malati di Ebola, ma siamo sicuri che la loro battaglia sia in Italia?

Le milizie associate a ISIS possono avere interesse a lucrare sul traffico di emigranti nei barconi: senza dubbio lo faranno, lottando con le altre milizie per il controllo dei flussi. L’eccidio dei ventuno copti è stata chiaramente una tragica azione dimostrativa, alimentata dalla sete di ISIS di occupare lo spazio mediatico e di scatenare terrore e risposte irrazionali nell’opinione pubblica occidentale. I mille militanti di Derna, quand’anche aumentassero in numero, possono essere sconfitti militarmente, e può darsi che l’intervento militare, guidato da truppe italiane nell’ambito delle Nazioni Unite possa essere la risposta adeguata. Bisogna però intendersi su che tipo d’intervento il Consiglio di Sicurezza può autorizzare: non può essere di peace – keeping, perché non c’è in Libia nessuna pace da proteggere: ci sono due governi concorrenti e diverse milizie con fedeltà diverse in lotta tra loro per il controllo delle risorse.

Il peace–keeping potrà solo venire dopo un eventuale intervento, autorizzato dalle Nazioni Unite, di natura militare (peace–enforcement) che richiederà l’uso di forze aeree, che alla fine a Kobane sono servite, ma anche la presenza di truppe di terra. Cui bisognerà vedere chi vorrà contribuire. Si potrebbe pensare, sempre con autorizzazione ONU, anche a usare per la prima volta le forze d’intervento rapido dell’UE, ma ci vorrà il consenso d’un numero significativo di paesi, e questo richiede tempo. Come segnalato da Torelli, l’uso di forze militari dell’ex-potenza coloniale ha forse più controindicazioni che vantaggi, e potrebbe attirare sull’Italia un’accresciuta attenzione dei terroristi. Non quelli dei barconi, di cui non s’è mai dimostrata l’esistenza, ma di quelli cresciuti in Europa e radicalizzatisi nel tempo. Come coloro che hanno colpito a Londra, Parigi e Copenaghen. Quello è il vero pericolo, non “l’invasione di ISIS”.

L’intervento dovrebbe essere chiaramente delimitato: probabilmente assumerà’ le pericolose caratteristiche di guerriglia urbana, in cui il vantaggio sta col difensore, una modalità di combattimento cui poche truppe europee, e non certo le nostre, specialiste in peace – keeping, sono abituate. Si produrranno flussi importanti di rifugiati, come nel 2011, che eserciteranno pressione in primis sui paesi vicini, Tunisia ed Egitto. Contrariamente a quanto sogna chi vede nell’intervento militare una soluzione risolutiva, entreremo probabilmente in uno scenario di crisi prolungata nel quale dobbiamo sentirci preparati a restare per molto tempo dopo la fine delle operazioni militari. Perché’ si possa passare alla fase di peace – keeping, con tutto ciò che essa comporta, sarà necessario che prima si stabilisca un cessate il fuoco e un accordo su una transizione politica tra i due governi contrapposti di Tobruk e Tripoli: è un obiettivo raggiungibile? Non è affatto chiaro. Intervenire affrettatamente, contro una sola delle parti belligeranti, senza che ci siano prospettive di accordo politico e senza avere chiaro cosa fare dopo può rivelarsi una trappola mortale, dalle conseguenze peggiori dell’incertezza attuale.

Nel 2011, si intervenne in Libia per ragioni ufficialmente umanitarie (protezione dei civili a Bengasi), salvo poi estendere l’intervento fino alla caduta di Gheddafi. Fu la prima di una serie d’incomprensioni con la Russia, membro permanente del Consiglio di Sicurezza, che pur non essendo amica di ISIS non favorirà adesso iniziative “occidentali” in Libia.
Per quanto riguarda l’eventuale accordo tra due governi libici, difficile da prevedere, dovrebbe costituire l’attuale priorità della comunità internazionale per favorire il ritorno alla normalità in Libia. Rimane il problema dell’inclusività dell’accordo: in uno scenario frammentato come quello libico, con molteplici gruppi in lotta, fedeltà tribali, alleanze mutevoli e l’ombra della concorrenza tra le franchigie di Al Qaeda e ISIS, chi deve sedere attorno al tavolo? In Afghanistan si tennero fuori dalla Loya Jirga risolutiva, contro il criterio di Karzai, i talebani. Fu probabilmente un errore che continuiamo a pagare ancora oggi, perché’ esclusi da quell’accordo, vogliono recuperare il potere con la forza.

Che tipo di accordo può venir fuori tra le forze libiche contrapposte? Che tipo d’impegno nel peace–keeping e poi nel nation–building siamo disposti a metterci, sapendo che si tratta d’esercizi lunghi, costosi e pericolosi, con più probabilità di fallimento che di successo? Useremo gli strumenti della PESC europea o piuttosto quelli delle Nazioni Unite. O entrambi?
Come pensiamo d’affrontare il pericolo vero, quello rappresentato dalla minoranza di mussulmani europei radicalizzati e pronti a colpire nei nostri paesi, senza bisogno di venire da fuori?

Molte domande di cui non sono chiare le risposte, e che non possono ridursi a una contrapposizione tra “gente con le palle” (alla “armiamoci e partite”) e pacifisti a oltranza, per cui la colpa è sempre degli amerikani: la stabilità non deriva dall’uso della guerra o dalla rinuncia ad essa, ma da una sapiente combinazione di strumenti, di strategie e tattiche, di politiche di sicurezza, coordinamento dei servizi d’informazione e intelligence, di sviluppo economico, di dialogo culturale. Può esserci un tempo per l’uso della forza armata, ma in un quadro chiaro e definito, non improvvisato. Perché il dopo–2001 ci ha dimostrato che le guerre si possono apparentemente vincere sul campo, ma i veri problemi cominciano solo dopo.

 

 

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