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“Last men in Aleppo”: la Siria conquista il Sundance Film Festival
L’occhio di un pesce.
Poi il cielo porpora e oro, come solo durante i tramonti nel Medio Oriente. Viste dal basso, le bombe sembrano palloncini che volano al contrario.
L’esplosione, il boato, il crollo. Le macerie.
E’ qui che comincia “Last Men in Aleppo”, il documentario di Feras Fayyad che abbiamo visto al Sundance Film Festival in corso a Park City dedicato ai white helmets, gli elmetti bianchi, ovvero l’organizzazione che di lavoro svolge il compito più ingrato del Pianeta: nel migliore dei casi, estrarre i feriti dalle rovine causate dai bombardamenti. Nel peggiore, estrarle già cadaveri.
Due braccia maschili sollevano una pietra: sotto c’è una mano umana. Ora bisognerà trovare il resto.
Le braccia continuano a scavare, frenetiche. Si sente una voce. È un ragazzino ancora vivo: ha un occhio martoriato e la pelle del viso che ribolle, gentile omaggio di Vladimir Putin e delle sue armi chimiche che i Russi hanno lanciato indisturbati fino all’agosto del 2016, con Obama impegnato a ballare con sua moglie – per la gioia del popolo dei social network.
“Siamo stati abbandonati dagli Americani, siamo macellati dai russi e siamo odiati dagli altri Paesi Arabi”, dice il leader dei white helmets Khaled ai suoi, e le sue parole tagliano la nostra coscienza come lame. Grazie ai suoi occhi attraversiamo le spettrali vie di Aleppo avanti e indietro, a bordo del camion del pronto intervento, lungo paesaggi lunari identici alla Dresda della Seconda Guerra Mondiale.
Già, Dresda. Si era detto che la Storia non si sarebbe potuta ripetere, perché ora siamo adulti e abbiamo imparato dai nostri errori. Perché ora abbiamo le immagini, ora tutto può essere mostrato e un orrore del genere sarebbe stato impossibile da tollerare. Perché il Presidente degli Stati Uniti – non il puzzone attuale ma il suo amato predecessore – aveva giurato che c’era “una linea rossa” che nessuno avrebbe potuto sognarsi di oltrepassare.
E invece il camion di Khaled e dei suoi arriva sul luogo del quinto bombardamento della giornata: di nuovo armi chimiche, di nuovo obiettivi civili per ammazzare civili. La morte per la morte, in quello che è – a tutti gli effetti – un genocidio compiuto contro una popolazione inerme, armata solo delle proprie braccia.
Si scava ancora, a mani nude, tra mattoni, detriti, pezzi di intonaco e di vita distrutti per sempre. Spunta una testa: è un bambino di tre anni. Il padre aiuta ad estrarlo dalle macerie. Lo abbraccia, trattenendo le lacrime come può, con un contegno sconosciuto a noi Occidentali che in pausa pranzo minacciamo Guerre Sante per una vignetta. Si sente un grido provenire da una cloaca di rovine e calcinacci. L’uomo corre verso le macerie, aiutato dagli elmetti bianchi apre un varco e ci si butta dentro. In breve riemerge una corpo femminile: è sua moglie. Straziata, priva di vestiti, coperta di sangue: ma viva, magnificamente viva. Khaled prende una coperta, e coprendosi gli occhi la tiene tesa davanti alla donna, di modo che nessuno possa guardare. Possono cercare di annientarli finché vogliono, ma non gli toglieranno mai la dignità di esseri umani.
Incredibile è come le immagini siano sempre precise, bilanciate, come si trattasse di una fiction. Le immagini traballanti e sfuocate che ci si aspetterebbe da un documentario girato in queste condizioni (a un certo punto, la troupe si trova sotto il fuoco diretto di una mitragliatrice) qui non esistono. Tutto è rappresentato con un gusto e una bellezza surreale, il film ha una maestosità tragica che in precedenza avevamo visto solo nei capolavori del primo Neo-realismo italiano, a cominciare da quella misteriosa immagine iniziale.
L’occhio del pesce. Perché?
Perché l’unico modo che Khaled ha per sopravvivere alla morte che tocca – letteralmente – con mano decine di volte al giorno è provare a sfidarla creando vita. Così, assieme al fratello, coltiva un orto che “se non sfamerà noi, sfamerà la prossima generazione”; così, assieme ai suoi compagni, compra alcuni pesci rossi che mette in un acquario, per far divertire le sue due figlie prima di riuscire a farle fuggire in Turchia. Lui no, lui non fugge. Né con i terroristi, né con Assad: con Aleppo e con il popolo siriano fino alla fine.
Come spiega mentre guida in ciò che resta dei luoghi della sua infanzia, lui è nato e cresciuto ad Aleppo: se il Mondo ha deciso che Aleppo deve morire, lui morirà con lei.
Questo è – in sintesi – “Last Men in Aleppo”, di gran lunga il miglior documentario in gara al Sundance di quest’anno, dedicato alla tragedia più incomprensibile di questo decennio. Un film realizzato con passione e umanità infinita, che a guardarlo ti fa percepire il calore del fuoco sulla pelle, il ronzio delle esplosioni nelle orecchie, l’odore della paura che dal naso arriva dritta al cervello, inchiodandoti alla sedia dall’inizio ai titoli di coda.
Ma più che un documentario, “Last Men in Aleppo” è una testata in pieno volto a tutto l’Occidente, la cui visione dovrebbe essere resa obbligatoria pena l’inibizione permanente dai social network. Sia alle groupies di Vladimir Putin, che parlano di vite umane come fossero pedine del Monopoli, i fenomeni dell'”aiutarli a casa loro” che non hanno ancora capito che “casa loro” non esiste più da un pezzo. Sia ai liberal dei cuoricini sotto le foto di Obama che balla con sua moglie, quelli che passano il tempo frignando per la perdita del Presidente Buono: nessuno ha sulla coscienza i morti di Aleppo come ce li ha lui.
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