Diritti
30° giornata ONU per la stampa libera: cosa rischiano i giornalisti in Italia?
Era il 3 maggio 1993 quando l’Assemblea Generale ONU istituiva, in seguito alle raccomandazioni UNESCO che ribadivano la necessità di intensificare, a livello globale, l’azione per la tutela della libertà di stampa e dell’informazione libera, la c.d. “Giornata mondiale per la libertà di stampa” – che si celebra, oggi, in tutti i paesi ONU e che nasce, sostanzialmente, come una sorta di ‘reminder’ per governi e Stati della loro responsabilità, in pace come in guerra, di proteggere, incoraggiare e diffondere la libertà di stampa come bene comune.
E in altre parole, nel 1993: in linea con quanto previsto dai trattati internazionali sottoscritti dagli stessi nell’ambito delle Nazioni Unite, gli Stati riconoscevano la necessità di impegnarsi per garantire che la libertà di stampa fosse tutelata, nell’area ONU, come diritto fondamentale, e si davano appuntamento il 3 maggio di ogni anno per verificare se, con il passare degli anni, essi fossero stati in grado di offrire a mezzo stampa e giornalisti adeguati diritti, compensi e tutele – e per eventualmente stabilire, di volta in volta, insieme nuovi possibili scenari e strategie da implementare, nel proprio territorio, laddove avesse dovuto risultare che, per un motivo o per l’altro, tale obiettivo non fosse stato raggiunto.
Queste, nel lontano 1993, le promesse fatte dagli Stati ONU ai giornalisti attivi sul proprio territorio; e allora come stanno, a trent’anni da quella data, i professionisti del mezzo stampa nei paesi della “diritto umano all’informazione”?
Purtroppo, tutt’altro che bene: questo è quanto è emerso, pochi giorni fa, dal report pubblicato insieme alla Safety for Journalists Platform dal Consiglio d’Europa, che riporta gli ultimi dati raccolti dagli studiosi dell’istituzione in merito all’attuale stato di riconoscimento del diritto fondamentale alla libertà di stampa negli Stati Parte – e che lancia, sin dal suo titolo “Time to Turn the Tide”, un allarme non indifferente a proposito delle effettive condizioni in cui, a oggi, il mondo dell’informazione si trova ad operare nel territorio dei paesi dell’area UE. Stando a quanto riporta lo studio, infatti, mai come nell’anno passato, e nei primi mesi del 2024, la stampa si è trovata ad essere indebolita e minacciata da un numero così importante di nuovi e vecchi fattori di rischio, che, in modalità diverse a seconda delle circostanze, sono andate a minare la libertà, l’incolumità e la sicurezza di giornalisti, reporter e dell’intero mezzo stampa – che sarebbe ormai da considerarsi, in tempo di guerra come in pace, come una professione pericolosa.
Quanto alle dimensioni del fenomeno, si riportano alcuni dati: solo nel 2023, secondo lo studio, si sarebbero verificati nell’area UE 285 gravi attacchi all’integrità del mezzo stampa o all’incolumità di giornalisti, mentre episodi di minacce, ritorsioni, censure o pressioni di vario tipo sarebbero, in tutti i paesi dell’UE, in costante aumento. In particolare, una crescita esponenziale si sarebbe verificata, negli scorsi mesi, di quei provvedimenti o misure finalizzate precisamente alla compressione della libertà di espressione di fonti di informazione indipendenti o meno; allo stesso modo, sarebbero in costante aumento le c.d. SLAPPs (Strategic Lawsuits Against Public Participation, ossia cause intentate esclusivamente con lo scopo di dissuadere giornalisti o editori dalla divulgazione di informazioni ritenute ‘scomode’ per soggetti privati o, più frequentemente, autorità). Ed è soprattutto alla luce di quest’ultima fattispecie, riporta il CoE, che la politica starebbe andando via via a rappresentare, insieme a criminalità organizzata e intelligenza artificiale, uno dei principali rischi per la salvaguardia libera stampa, mentre la “polarizzazione dell’informazione a favore dei poteri al Governo” sarebbe sempre più diffusa, a scapito dei media indipendenti, tra tutti i mezzi di comunicazione disponibili, dal cartaceo all’online, nei paesi dell’area UE.
E quanto detto vale, anche, per l’Italia.
Come evidenziato dagli ultimi numeri condivisi, in vista dell’anniversario che si celebra quest’oggi, dal Media Freedom Rapid Response (MFRR) europeo, per il periodo che va dal 1 gennaio al 31 dicembre 2023 nel nostro paese si sarebbero verificati, in tutto, non meno di 109 attacchi a testate e giornalisti – per un totale di 80 segnalazioni – dei quali il 32.5% sarebbe stato accompagnato, in concreto, da provvedimenti legali definiti “di carattere vessatorio”. E tutto ciò, riporta il MFRR, non solo perché in Italia, con l’ascesa della “hard right coalition government led by Prime Minister Giorgia Meloni”, la libertà di stampa avrebbe riscontrato una compressione di fatto non trascurabile, ma anche perché, nel nostro paese, la sostanziale assenza di reali meccanismi di monitoraggio e garanzia a tutela dei giornalisti e dei soggetti che lavorano nel mezzo stampa avrebbe fatto in modo che, agli attacchi all’informazione possibilmente riscontrati, difficilmente corrispondesse una risposta effettiva, e concreta, in termini giudiziari o risarcitori – rimanendo così la maggior parte di questi attacchi, sostanzialmente, impuniti.
Si tratta di numeri e dati che, pur nella loro asetticità, fanno riflettere, e soprattutto alla luce degli ultimi eventi; basti pensare che, solo qualche mese fa, proprio per andare a inasprire la risposta penale a determinate condotte a carico di giornalisti erano intervenuti, in Senato, alcuni esponenti di Fratelli d’Italia che avevano presentato, relatore Gianni Berrino, le disposizioni del c.d. “ddl bavaglio” – provvedimento che prevedeva, nella sua originaria formulazione voluta da FdI e Lega, la carcerazione fino a 4 anni e mezzo per i giornalisti condannati per diffamazione a mezzo stampa. Formulazione che, ricordiamolo, è stata prima ritrattata e, poi, – la notizia è di oggi – ritirata, anche alla luce delle perplessità che erano state sollevate, tra l’altro, dalla Federazione europea dei giornalisti e da Reporter Sans Frontières- a nome dei quali aveva dichiarato Pavol Slazai, portavoce di RPF, a LaPresse: “si tratta di un intervento pericoloso, in diretta violazione del diritto internazionale e del diritto europeo, nella misura in cui si prevede che un giornalista, condannato per diffamazione, possa essere interdetto dall’esercizio della sua professione”.
Interdizione che, in effetti, sarebbe stata contraria, oltre che con quanto previsto dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Sallusti (ricordiamolo: in questo caso, la Corte aveva dato ragione a Sallusti che aveva ritenuto “manifestamente sproporzionata” la condanna al carcere per diffamazione ricevuta nel 2007, riconoscendo al giornalista danni morali per 12mila euro), con gli obblighi assunti dall’Italia in materia di diritti umani già nel 1966, quando il nostro paese sottoscriveva, insieme a tutti gli altri Stati ONU, il Patto sui diritti civili e politici.
Obblighi di cui pare ricordarsi, nel dibattito pubblico di questi giorni, soltanto il Presidente Sergio Mattarella quando ricorda, citando l’art. 21 della Costituzione, che “la libertà di stampa è un elemento indispensabile della nostra democrazia, insieme alla lealtà, all’indipendenza dell’informazione, alla libertà di critica e al rispetto dei fatti e delle personalità altrui”.
Belle parole, queste, che si sposano perfettamente con i dati riportati fin qui. Dati e parole di cui, però, in effetti non sembra che, anche in vista delle prossime elezioni europee, chi di dovere tenga particolarmente conto – visto anche come spesso e volentieri la questione della “libertà di stampa e di espressione” in Italia è relegata, dal Governo in carica ma non solo, a una questione, sostanzialmente, pretestuosa.
E dire che, come ha ricordato il Presidente, quella della libertà di espressione nel territorio di uno Stato in realtà è una questione piuttosto seria, che merita attenzione e rispetto. E questo lo diciamo, soprattutto per attenerci a quanto continuano a sottolineare, rivolgendosi anche a noi, le istituzioni europee e internazionali di cui, anche se spesso lo si dimentica, noi stessi facciamo parte. E il “noi”, qui, non fa riferimento a nessun Governo, ideologia o partito politico; semplicemente, è da intendersi come “Italia”.
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