Macroeconomia

PER COME OGGI FUNZIONA LO STATO, SFORARE I PARAMETRI NON CI SALVERà

10 Dicembre 2014

La recente conversazione con un amico che risiede in una nota città universitaria mi ha proposto ancora una volta, sebbene in una nuova variante, due elementi che si ritrovano pressoché sempre nel dibattito pubblico italiano: la diffusa credenza per cui attraverso la spesa sarebbe possibile costruire la via verso la prosperità e, insieme, la costante omissione dei temi dell’efficienza e della produttività quando si tratta di ragionare di allocazione delle risorse.

Commentando una vecchia proposta, prevedere rette più alte per gli studenti fuori corso al fine di incentivarli ad affrettare i tempi della laurea, egli sottolineava come non fosse in fondo male che essi restassero “un po’ di più in giro”, perché così avrebbero speso, consumato e fatto “girare l’economia della città”, sostenendo la domanda. Primum spendere, diremmo, ultimum preoccuparsi del come e perché lo si fa.

Certo, se il mio amico fosse un esercente della città in questione, il suo interesse di bottega potrebbe anche essere comprensibile, ma, in realtà, ciò che consapevolmente lui sostiene è che la spesa – proprio quella spesa lì – sia buona per la collettività, perché contribuisce ad aumentare i consumi e, dunque, il Pil.

Dove sta il problema? In due considerazioni che dovrebbero essere ovvie, ma finiscono per non esserlo mai: a) le risorse che servono a sostenere i consumi dello studente (fannullone) avrebbero impieghi alternativi (detto altrimenti, esiste un costo-opportunità, sistematicamente ignorato), cioè verrebbero spese comunque o, meglio ancora, risparmiate ed investite (non è secondario notare che chi elogia la spesa, spesso e volentieri sembri deprecare il risparmio, sovente derubricato con l’etichetta spregiativa di rendita, ultimamente anche nella sua versione “pura”); b) se lo studente, invece di ciondolare tra i portici ed il bar, avesse conseguito una qualifica e lavorasse, producendo a sua volta qualcosa, continuerebbe a spendere, solo che così la torta (beni e servizi disponibili, che è ciò che conta davvero) sarebbe più grande e non comporterebbe una semplice redistribuzione che nulla crea di nuovo.

Ora, questa storiella potrebbe apparire confinata alla sfera privata di un genitore che coi propri soldi fa ben ciò che crede, ma così non è, perché, su scala molto più ampia, il meccanismo descritto è lo stesso che in Italia guida la gestione di una parte significativa del bilancio pubblico, ove l’intermediazione dello Stato esiste per drenare risorse crescenti dal sistema produttivo e dirottarle verso sussidi ed assistenza o, detto più brutalmente, esiste per distruggere la competitività del paese.

E non si tratta qui di negare un ruolo alle politiche anti-cicliche sul lato della domanda (in particolare nella forma dei cosiddetti stabilizzatori automatici) o che, nell’attuale contesto macro, oltre alle solite, robuste riforme supply-side, sia desiderabile una stance fiscale almeno non restrittiva ed una politica monetaria accomodante. Il punto è un altro e, purtroppo, non si limita alla sola spesa corrente, ma coinvolge anche i mitici investimenti, quelli che “se solo li scorporassimo dal patto di stabilità e crescita”, come si usa dire, i nostri problemi svanirebbero per magia. Come è stato documentato a più riprese (e nel modo più efficace forse da Marco Ponti), in Italia vige la pressoché totale assenza di analisi costi-benefici serie ed indipendenti a monte delle decisioni di investimento pubblico, dunque non c’è garanzia alcuna di ritorni economici e sociali accettabili. Non a caso, chi si prendesse la briga di leggere i (pochi) tentativi di valutare alcune delle principali opere (messe in cantiere o già realizzate), in particolare nel settore dei trasporti, si imbatterebbe in storie dell’orrore, fatte di numeri sballati, previsioni di traffico inventate, conflitti di interessi multipli e sforamenti di budget costanti.

Se queste sono le premesse, nemmeno gli investimenti (inclusi i fondi europei) ci salveranno, anzi, potrebbero persino risultare dannosi, non diversamente da quanto accaduto al denaro convogliato negli anni verso i paesi istituzionalmente deboli, in cui l’aiuto internazionale ha alimentato corruzione e malaffare. 

Questa sorta di pseudo-keynesismo diffuso – che nelle sue varianti informa buona parte della cultura politico economica nostrana -, in sostanza ripete gli errori di fondo del mio amico, ovvero, a) evita di porsi il problema dell’impiego oculato delle risorse (ie. dei loro ritorni), b) tenta di occultarne la provenienza (tasse e/o debito) ed i trade-off che ne caratterizzano l’allocazione.

Così, è forse istruttivo ripassare in breve la storia recente di due paesi in cui si sente spesso parlare di spesa (buona) e molto poco di efficienza, due paesi che, seppur con diverso livello di intensità, hanno replicato e praticato in grande la vita dello studente summenzionato, la Grecia e l’Italia, quelli messi peggio in Europa, al momento.

Il più ardito esercizio di aumento di spesa (improduttiva) nell’ultimo decennio è rappresentato, manco a dirlo, dalla Grecia, dove tra il 2000 ed il 2009 è raddoppiata, passando da 60 ad oltre 120 miliardi, con una crescita vicina all’8% all’anno. Ironia della sorte, una buona fetta di essa, mentre il debito si ingigantiva, è andata sì nelle tasche di chi poi consumava, ma per acquistare prodotti importati, auto, computer, telefoni, etc.. contribuendo anche ad allargare a dismisura il deficit di parte corrente del Paese. Il ferroviere greco, al pari del nostro studente, ha di certo speso molto, magari si è comprato l’iPhone o persino l’iPad. Tuttavia, come è stato detto con espressione icastica, «il pompaggio di spesa pubblica in un’economia inefficiente è analogo al pompaggio di benzina in un rottame di autovettura” .

E la storia dell’Italia non è poi troppo diversa da quella greca, nelle sue dinamiche di fondo. Infatti, in rapporto al prodotto (e in valore assoluto è andata al galoppo), dal 1993 (dopo la prima grande crisi del debito) ad oggi, la spesa pubblica è aumentata di circa otto punti percentuali. E fatto cento il reddito disponibile netto di famiglie e pubblica amministrazione nel 1995, nel 2010 quello delle prime ammontava a circa 150, quello della seconda a oltre 230. In altre parole, negli ultimi 15 anni, lo Stato è andato rosicchiando una quota crescente del reddito disponibile delle famiglie, il quale, a fronte del crescere di tasse e contributi, è aumentato meno della (pur bassissima) produttività del lavoro, eroso dalla voracità del fisco (giova ricordare che più o meno negli stessi anni, per la precisione nel periodo 1993-2009, la spesa pubblica della Svezia in percentuale del Pil si è ridotta di circa 1/5!).

E per ottenere che cosa? Oggi la spesa italiana è di pochi punti percentuali più alta di quella tedesca, ma con un livello di soddisfazione per i servizi (percezione dell’output pubblico) solo di poco superiore a quella di Paesi ancora in via di sviluppo come il Messico. Essa è, quindi, quantitativamente eccessiva e qualitativamente inefficiente, ie. produce servizi per i cittadini che costano troppo e sono di qualità scarsa. In più c’è Alitalia, ovviamente,  e ci sono tutti i casi in cui si è scelto di o si suggerisce che sarebbe desiderabile trasferire ulteriori risorse da chi produce a chi è inefficiente (per inciso, la martellante retorica che ad ogni crisi aziendale mette al centro l’occupazione come bene superiore sempre e comunque – ci torneremo in altra occasione, per notare le differenza d’approccio tra il modello Obama nel salvataggio dell’auto americana nel 2009 e la tipica vertenza italiana -, è parte dello stesso problema su cui ci stiamo esercitando: le aziende non esistono – o non dovrebbero esistere – in primo luogo per “dare un po’ di lavoro”, per dirla alla Bersani, esistono per produrre beni e servizi per gli utenti/consumatori. Gli stipendi fine a se stessi non sono un prodotto né un servizio).

E allora, rispetto al passato, oggi #cambiareverso veramente significherebbe in primo luogo fermarsi e pensare a come riparare la macchina, invece di unirsi al coro di chi invoca più benzina nei serbatoi bucati, raccogliere le migliori competenze e mettersi in condizione di produrre rigorose analisi costi-benefici cui sottoporre le decisioni di investimento (in assenza di questo, il tanto sbandierato primato della politica, quando va bene, significa semplicemente approssimazione), accantonare per un attimo i libri sulla scrivania che parlano di Stato innovatore, e mostrare che si è capito che senza rifondarlo, questo Stato, nella sua organizzazione, negli incentivi che fornisce, negli equilibri che perpetua, l’unica innovazione possibile sarà quella dei modi in cui sfracellarsi.

 

 

 

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