Macroeconomia
La ripresa fantasma di un paese che arranca
La recente pubblicazione dell’aggiornamento del DEF (il Documento di Economia e Finanza) e il rilascio delle stime aggiornate su prodotto interno lordo, debito e deficit hanno confermato le brutte nuove che i dati ISTAT una settimana fa annunciavano: il PIL è fermo, il Paese arranca. Sì, ma di quanto?
Gli aggiornamenti trimestrali dei dati reali su produzione, occupazione e debito, i sondaggi sintetizzati dagli “indici di fiducia”, tutto contribuisce a produrre un brusio mediatico difficilmente comprensibile, che mescola andamenti stagionali, oscillazioni casuali ed errori di misurazione. A due dati leggibili come negativi, se ne sovrappone un altro interpretabile come positivo. Ad un dato assoluto, si aggiunge una variazione percentuale, di cui magari non si capisce il periodo di riferimento. Il senso comune comunque ci pone in una situazione di debole ripresa economica, apparentemente imprigionata nella narrativa degli “zero virgola”, di cui si faticano a trovare evidenze controfattuali solide. Un primo colpo d’occhio all’andamento del PIL negli ultimi 5 anni ci da una prima misura del pantano in cui versa l’economia nazionale (cfr. Figura 1).
I singoli punti (dati destagionalizzati) rappresentano il PIL trimestre per trimestre e riescono ad inquadrare con più dettaglio l’andamento dell’economia nel tempo rispetto al dato annuale. Risulta subito evidente il tracollo avviatosi a giugno 2011 e che ha preso abbrivio con la crisi di fiducia sul debito dell’estate 2011, con la fine del governo Berlusconi e l’avvio della gestione Monti. Il 2012 è stato un annus horribilis per l’Italia con il PIL in picchiata trimestre dopo trimestre; la caduta libera non si è arrestata prima del giugno 2013. è seguita una spettrale stagnazione di oltre 18 mesi, da cui il PIL è sembrato emergere timidamente solo ad inizio 2015 per via di una serie di fattori congiunturali straordinariamente favorevoli (crollo del prezzo del petrolio, Euro molto debole e avvio del Quantitative Easing della BCE). In ogni caso, è chiaro che la scala della tanto desiderata “ripresa” non è soddisfacente: in un anno e mezzo il PIL ha recuperato quanto aveva perso in meno di 6 mesi nel 2012. E gli ultimi dati non lasciano ben sperare, visto che nel secondo trimestre dell’anno il recupero si è arrestato.
Le domande legittime a cui i dati dovrebbero rispondere sono: cosa si è spezzato nell’economia italiana con l’emergenza del 2011-2012, per quali ragioni e cosa si è riuscito a ricomporre nel corso degli ultimi anni? Il collasso del settore industriale nazionale rappresenta sicuramente l’elemento più ricorrente nelle narrative della crisi, meritevole di essere indagato a fondo. A tal fine, si consideri l’andamento del PIL trimestrale italiano attribuibile all’industria dal 2011 ad oggi (cfr. Figura 2).
Il dato relativo alla produzione industriale si muove in accordo con quello del PIL, confermando un crollo precipitoso da metà 2011 fino ad inizio 2013 e poi un lento declino che è proseguito in ogni caso fino alla fine del 2014. Il successivo recupero è stato molto debole e pare si sia arrestato nel primo semestre di quest’anno. La lentezza del recupero induce a sospettare che la recessione economica abbia spazzato completamente una significativa fetta di base produttiva: imprese ed interi distretti industriali che non esistono proprio più. In altre parole, con la ripartenza della domanda interna solo le imprese che sono sopravvissute hanno ricominciato a produrre un po’ di più.
La conferma della deindustrializzazione del Paese viene dall’analisi dei dati sugli investimenti fissi lordi, una componente specifica del PIL che identifica gli investimenti di imprese private e pubbliche in beni destinati ad essere utilizzati nei processi produttivi (cfr. Figura 3).
Anche in questo caso emerge una dinamica di collasso repentino fino a metà 2013 ed una successiva, lunga stagnazione fino a dicembre 2014. La ripresa degli investimenti inizia con difficoltà solo nel 2015 ma si tratta di incrementi minimali, quasi insignificanti nel quadro generale. La lettura del dato è piuttosto chiara: una parte del tessuto industriale è scomparsa tra il 2011 ed il 2013 e dunque viene a mancare la componente di investimenti (rimpiazzo di macchinari, nuovi acquisti) ad esso riferibile. Dall’altra le imprese sopravvissute non si azzardano ad avviare nuovi cicli di investimento, ma si limitano a sostituire solo la parte del capitale industriale indispensabile a proseguire l’attività. Un maggiore dettaglio può essere ottenuto decomponendo il dato iniziale, evidenziando quanta parte degli investimenti è destinata a costruzioni, quanta a macchinari ed attrezzature industriali e quanta ai mezzi di trasporto (cfr. Figura 4).
Gran parte del declino degli investimenti fissi lordi è attribuibile al crollo nel settore delle costruzioni nel 2011-2013, che non è stato mai recuperato nemmeno parzialmente. Più statico l’andamento degli investimenti in macchinari industriali, comunque in trend stabilmente negativo. La piccolissima ripresa che si è evidenziata dal 2015 può essere attribuibile alla crescita degli investimenti in mezzi di trasporto, che con tutta probabilità sono stati sostituiti per usura del parco mezzi; è chiara comunque l’incidenza minima di questa voce di spesa rispetto al totale degli investimenti fissi lordi effettuati dal sistema industriale italiano.
A quali fattori è stato dovuto il collasso del sistema industriale nel biennio 2011-2013? Ci sono tre cause fondamentali che si intersecano: ad un ciclo economico che comunque era in rallentamento si sono aggiunti il credit crunch che ha colpito il sistema bancario italiano ed ha innalzato i costi del credito per le imprese di 130 punti base in pochi mesi ed il crollo dei consumi interni indotto principalmente dalle misure di austerity varate in tutta fretta dal governo Monti tra il 2011 ed il 2012.
Per capire la scala dell’impatto della crisi del credito, si consideri l’andamento delle variabili in Figura 5.
Le banche hanno innalzato i costi del funding alle imprese principalmente per compensare l’impatto dell’aumento dei costi di rifinanziamento del debito governativo. Cosa è successo: con i tassi di interesse sui BTP che in pochi mesi sono schizzati anche al 7-8% su determinate scadenze ed il panico tra gli investitori esteri e retail, le banche si sono fatte carico della sottoscrizione di gran parte del nuovo debito pubblico. Sebbene i nuovi titoli fossero ad alto rendimento e teoricamente molto convenienti, il debito complessivo nella pancia delle banche aveva valorizzazioni molto basse per via dei dubbi del mercato sulla solvibilità del governo. I problemi di tenuta dei bilanci bancari si sono rapidamente trasformati in un aumento dei costi per il sistema industriale italiano, che si è trovato a competere in posizione di grande svantaggio sul mercato europeo mentre altri Paesi vedevano una riduzione dei costi di finanziamento alle imprese. Ad es. la Germania (si osservi la linea verde in Figura 5).
Il crollo dei consumi interni è invece ben apprezzabile in Figura 6, dove è messo in comparazione con l’andamento della spesa delle Amministrazioni pubbliche nel periodo di riferimento.
La linea arancione in Figura 6, che rappresenta l’andamento dei consumi privati vede un primo crollo precipitoso nella fase acuta della crisi giugno-dicembre 2011 a seguito dell’instaurarsi di un clima di profonda sfiducia nei confronti della politica del governo e delle prospettive economiche ed una seconda fase, profondamente negativa, che è con tutta probabilità attribuibile alla “cura Monti”, cioè a quell’insieme di misure di austerity che ha comportato in pochi mesi una crescita repentina della pressione fiscale (aumento dell’IVA, delle accise sui carburanti, etc.), una dura riforma pensionistica ed il taglio della spesa pubblica. Alla contrazione dei consumi privati è seguita infatti di pari passo la riduzione dei consumi pubblici: l’andamento complessivo della spesa delle Pubbliche Amministrazioni, al netto degli effetti stagionali, è chiaramente decrescente per tutto il periodo di analisi, ad eccezione forse della modesta espansione sperimentata negli ultimi mesi.
C’è poco da stupirsi dunque se, a fronte della perdita in simultanea di una consistente fetta della domanda interna ed estera e dell’aumento improvviso dei costi di finanziamento, il sistema industriale si è avvitato in una crisi senza precedenti dal dopoguerra.
Dal 2015 i consumi privati sono in moderata ripresa e questo tanto è bastato per far virare in lieve segno positivo l’attività industriale ed il PIL. Questo rende incontestabile la natura “consumption driven” della mini-ripresina dell’economia italiana. Tuttavia è chiaro che la base industriale perduta non si ricostituisce facilmente: quando un’impresa va in fallimento va perduto non solo il capitale fisico ma anche il know-how tecnico-produttivo; saltano le connessioni con il resto del tessuto economico che risente a cascata della chiusura dell’azienda. L’economia declina e si predispone su un sentiero di più bassa crescita potenziale.
Pertanto i danni provocati dalla crisi di fiducia sul debito del 2011 e dalle politiche recessive messe in atto – principalmente – dal governo Monti nel 2011-2012 non si riducono semplicemente al PIL già perso, ma si riverbereranno anche negli anni futuri in una minore crescita attesa.
Le nuove stime governative riportate nel DEF, anche stavolta ampiamente ridotte rispetto alle precedenti, confermano il quadro di un Paese indebolito e deindustrializzato con poche aspettative di una robusta ripresa economica.
Per mettere in prospettiva il quadro delineato, resta da analizzare il punto di vista dell’equilibrio dei conti con l’estero (cfr. Figura 7), di centrale importanza in un sistema di cambi fissi come l’Euro.
Prima della crisi di fiducia sul debito pubblico la bilancia commerciale era in negativo, con una prevalenza delle importazioni sulle esportazioni. Le politiche di austerity del 2011-2012, inducendo forzatamente la riduzione dei consumi privati, hanno impattato anche sulle importazioni che hanno subito una riduzione fino al 15% in poco più di 2 anni. Lo stesso Monti ammise che il suo ruolo fu quello di “favorire la distruzione della domanda interna per incentivare un riallineamento competitivo del Paese”. Le esportazioni sono invece costantemente cresciute, avendo beneficiato di un tasso di cambio dell’Euro rispetto alle principali valute internazionali progressivamente più debole, sostenuto dalle politiche monetarie espansive della Banca Centrale Europea.
L’obiettivo del “riallineamento competitivo” e dell’equilibrio dei conti esteri può dirsi dunque centrato: la bilancia commerciale rimane abbondantemente in attivo nonostante la ripresa moderata delle importazioni (che comunque non hanno mai raggiunto i livelli sperimentati nella prima metà del 2011). Ma a quali costi per la crescita economica del Paese?
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