Commercio globale
Addio Ttip, a Bruxelles all’accordo Ue-Usa non crede più nessuno
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Doveva essere la “madre di tutti gli accordi di libero scambio”. Il “più ambizioso accordo della storia dell’Unione Europea”. Un incremento di prodotto interno lordo di 119 miliardi di euro all’anno. Milioni di posti di lavoro in più. E invece più passa il tempo, più appare improbabile che il controverso Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) – il “Partneriato transatlantico per il commercio e gli investimenti” tra Ue e Usa – vada in porto.
A Bruxelles ufficialmente nessuno vuole ammetterlo – tanto meno la commissaria al Commercio Cecilia Malmström – ma dietro le quinte ormai sono tanti i negoziatori coinvolti a vedere il Ttip praticamente spacciato. «Non si farà mai, non siamo avanzati sulla sostanza neppure di un millimetro», confessa un funzionario comunitario. Le opinioni pubbliche di vari paesi, Germania in testa, sono sempre più contrarie, mentre il Parlamento europeo è sul piede di guerra su vari fronti: dagli standard alimentari e ambientali fino ai famigerati “Isds” (Investor-State Dispute Settlement). Si tratta di un meccanismo di soluzione delle controversie, peraltro non raro negli accordi di libero scambio, che permetterebbe di citare in giudizio uno Stato di fronte a un tribunale arbitrale internazionale. L’obiettivo è offrire una protezione a imprese e investitori contro ingiuste espropriazioni o trattamenti discriminatori, incoraggiando gli scambi internazionali, gli investimenti e in definitiva la crescita. Il rischio, avvertono i critici, è che per questa via si scavalchino le leggi nazionali, e si svuoti la sovranità nazionale o comunitaria, e in definitiva la democrazia.
Bernd Lange è presidente della Commissione Commercio Internazionale del Parlamento europeo e ha già messo la Malmström sull’avviso: se passano gli Isds, l’assemblea Ue – il cui assenso è indispensabile perché entri in vigore l’accordo, qualora si arrivasse a un’intesa fra Bruxelles e Washington – boccerà l’accordo. Oltre a una questione di democrazia, si obietta che le clausole arbitrali possono essere necessarie in paesi dallo stato di diritto incerto o poco affidabile, come la Cina o altri paesi emergenti o in via di sviluppo, mentre l’Europa ha standard giuridici sufficientemente alti da garantire la tutela degli investitori con le norme Ue e nazionali. Una recente consultazione pubblica realizzata dalla Commissione Europea, e conclusa nel luglio scorso, ha raccolto 150mila risposte, di cui il 97% provenienti da singoli. Il responso è chiaro: «Le risposte riflettono un’ampia opposizione agli Isds nel Ttip. C’è anche una vasta maggioranza di risposte che si oppongono al Ttip in generale», scrive la Commissione, senza però quantificare esattamente.
La commissaria Ue al Commercio Cecilia Malmström alla conferenza sul Ttip organizzata dai socialisti tedeschi il 23 febbraio 2015 a Berlino (© SPD.de)
La sola questione dell’Isds è un macigno gigantesco sulla strada del negoziato. Washington è irremovibile sul fatto che le clausole arbitrali debbano essere incluse nel trattato. «Non possiamo andare poi a stipulare un accordo con la Cina e pretendere di inserire la clausola a tutela degli investitori, se noi non ce l’abbiamo nel Ttip», ragiona Anthony Gardner, ambasciatore statunitense presso l’Unione Europea. Sullo sfondo, c’è il negoziato degli Usa con vari stati della costa orientale dell’Asia e dell’America Latina: la Transpacific Partnership (Tpp), cui partecipano Australia, Canada, Giappone, Malesia, Messico, Vietnam, Perù, Vietnam, Singapore. Cedere con l’Ue sull’Isds potrebbe creare problemi su questo fronte, a cui Washington non fa mistero di tenere molto di più che all’Europa.
Quella dell’arbitrato sulle controversie con i governi è in realtà la punta dell’iceberg: ciò che più simboleggia agli occhi dei critici gli azzardi dell’accordo commerciale euro-statunitense. In realtà prevalgono varie altre paure, come l’abbassamento degli standard europei sul fronte alimentare ma anche su quello dell’industria chimica. I negoziatori americani, per fare un esempio, hanno già definito come «ostacolo al commercio» la direttiva Reach che regola severamente lo stoccaggio, il trattamento e lo smaltimento dei prodotti chimici. Ha suscitato vaste proteste la prospettiva di una «consultazione reciproca» sulle leggi da approvare per valutare se la controparte le valuta d’ostacolo o dannosa. Non un veto vero e proprio, ma comunque la possibilità di interferire sulla legislazione Ue (e viceversa).
La protesta, dunque, monta. Ben 1,3 milioni di europei hanno firmato un’iniziativa popolare per fermare il negoziato, 350 ong si sono unite all’iniziativa «Stop Ttip». Quel che però appare decisiva è anche l’opinione pubblica. Mentre la cancelliera Angela Merkel anche di recente ha fortemente sostenuto il Ttip, appena il 39% dei tedeschi si dice favorevole all’accordo, secondo una recente ricerca pubblicata a gennaio dal Pew Research Center di Washington. In Italia siamo al 58%, ma un’altra ricerca del Pew del 2014 rivela che, a guardare nel dettaglio, il 59% degli italiani teme una perdita di posti di lavoro, il 52% un calo dei salari.
Questo clima di ostilità o resistenza sta irritando gli americani. «Noi riteniamo l’accordo molto positivo, ma il tempo passa e se gli europei non vogliono quest’accordo, amen», commentano fonti negoziali statunitensi. L’ambasciatore Gardner mette in guardia anche dai malumori possibili al Congresso a Washington: «Ci sono già alcuni membri del Congresso preoccupati per l’economia ristagnante in Europa, temono di importarla da noi». Certo è che dal luglio 2013, quando l’allora presidente della Commissione europea José Manuel Barroso e il presidente Barack Obama annunciarono l’avvio dei negoziati, non si è mosso molto. Otto tornate negoziali sono servite più che altro a trovare punti comuni su aspetti specifici, come negli standard dell’industria automobilistica. Ma anche per evidenziare divergenze profondissime nel settore finanziario: è nota l’ostilità statunitense al desiderio di una regolamentazione più stringente sui derivati.
I leader europei hanno fissato il traguardo dell’accordo a dicembre 2015. Data che dovrebbe essere ribadita questo venerdì al Consiglio europeo. In verità, non ci crede nessuno. Un accordo mentre decolla campagna presidenziale Usa del 2016? Improbabile. Dunque, «i negoziati si protrarranno anche con la prossima amministrazione Usa», commentavano fonti diplomatiche dell’Unione. E questo vorrà dire, con ogni probabilità, dover praticamente ricominciare da capo con un’amministrazione probabilmente repubblicana. Il Ttip alla fine, pensano molti a Bruxelles, resterà in un cassetto.
In copertina, Protesta “STOP TTIP” a Bruxelles – foto scattata il 4 febbraio 2015, tratta dal profilo Flickr di Global Justice Now (Creative Commons)
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