Letteratura
Vitigni letterari
Per costrizioni di vita, per puro diletto di viaggio o anche per obblighi di lavoro ho girato quasi tutta l’Italia. Non mi manca alcuna regione praticamente. È mia abitudine consolidata stabilire sempre con la regione che visito o in cui vivo una connessione di natura letteraria. Leggo gli scrittori del posto insomma. Penso perciò, per fare solo un esempio, che sia un delitto soggiornare in Sardegna e non leggere neanche una pagina di “Marianna Sirca” o di Salvatore Satta.
A me sono molto care la letteratura della “linea lombarda” – una letteratura di adozione visto che abito in Lombardia da quasi 40 anni – e quella siciliana; e questa non solo per ragioni di nascita ma anche per elezione. Per capire “in che mondo vivi” non credo che ci sia sistema migliore, perché la letteratura è come il cibo o meglio un vitigno che affonda le radici in un ambiente, in una tradizione, nei “succhi vitali” di un territorio detto in termini ultimativi che richiederebbero tuttavia una migliore specificazione. L’unica regione in cui non ho trovato questi vitigni letterari è la Valtellina, dove ho vissuto tre anni, e che pure abbonda di vitigni-vitigni di notevole lignaggio che producono vini squisiti. Non si conta, da sempre a quel che io so, in Valle neanche uno scrittore – un Verga o un Pavese del luogo – che abbia testimoniato in versi o in prosa cosa ha significato il vivere e il morire in questa porzione di territorio lombardo. È forse per questa ragione che la locale banca commissionò negli anni Ottanta del secolo scorso a Mario Soldati – che abitò nel mio stesso palazzo in via Caimi in Sondrio – “L’avventura in Valtellina”. L’unica opera letteraria che “rendiconta” quei luoghi. Uso il verbo da computisteria perché la Valtellina, un tempo regione molto povera, ha prodotto molti “contabili” o economisti (Besta, Saraceno… Tremonti) forse a causa dell’attitudine o della necessità del luogo, privo di pecunia, di “spaccare il quattrino”. D’altronde è proprio l’assenza cronica del capitale che inuzzolì Marx a scriverci sopra.
In obbedienza alla mia consuetudine di sempre, in questa estate siciliana ho perciò ripreso Ercole Patti (“Le donne”; 1965) un libro delizioso di racconti. Con Patti mi ero sciarriato da giovane. Avevo litigato di brutto per molte ragioni. Innanzi tutto in quegli anni Settanta in cui lo abbordai le idee s’agitavano nella mia testa come i chiodi appuntiti nelle bombe di Felice Orsini. Ribollivo di rabbia e di risentimenti da esclusione sociale. Ma più che astratti erano confusi furori, generati da una precisa base fisica: l’assenza di una adeguata alimentazione, che altri chiamano in maniera spiccia “fame”. Sulle idee acuminate ho tuttavia qualche attenuante e vorrei sottrarle alla determinazione meccanica e automatica dell’indigenza. Le idee nella giovane età hanno la stessa valenza percettiva, fanno luogo delle sensazioni stesse, essendo “estetica” (da aisthesis-percezione sensoriale) la stessa condizione giovanile, e non è raro, quando va bene, che si tramutino in stati d’animo e quando va male in veri e propri disturbi comportamentali. Imbevuto di idee com’ero la narrativa di Patti non poteva che risultarmi estranea e fastidiosa. Non c’è nella sua prosa infatti neanche una idea o se c’è deve esserci come una sorta di ago nel pagliaio. Il parallelo che si fa con Brancati (nel considerare con questi metri da geometri Patti un Brancati minore) è distorcente e non dice nulla. Brancati si muove nel mondo delle percezioni e della sessualità stuzzicato sempre, e con una inclinazione da moraliste francese, da qualche idea politica, sia essa fascista, comunista o liberale, ovvero le idee del suo tempo. Per Patti è come se le idee non esistessero.
Di più: i suoi personaggi – almeno in questi racconti che ho tra le mani – non sono giovani, ma uomini di mezza età, perlopiù professionisti o ancora peggio, appartenenti a quella categoria abominevole – per me giovane squattrinato ma penso in sé e per sé – che nel Mezzogiorno viene detta dei “possidenti”. Il termine borghese è infatti improprio perché comporterebbe una valenza ideal-tipica che sa di intrapresa e di contabilità razionale che Patti ignorava del tutto e perciò estraneo nella sua pregnanza weberiana agli avvocati, magistrati, ricchi provinciali che frequentano volentieri le sue pagine Quale possibilità di identificazione o di proiezione potevo avere perciò con simili testimoni della vita?
Ultima e triplice ragione di avversione era la sua allure di scrittore proustiano (diciamo così) che stabilisce una connessione potente, spesso nostalgica e di netto sapore rétro, tra sé e il mondo, attraverso la descrizione lentissima, precisissima ed altamente evocativa degli oggetti. C’è un racconto, in questa raccolta, di rara suggestione tutto virato sulla vita racchiusa o meglio rappresa negli oggetti di una casa abbandonata – “il linguaggio dei fiori e delle cose mute” avrebbe detto Baudelaire – che si intitola giustappunto “Natura morta”. E non lascia del tutto insensibile, pur nel suo facile gioco evocativo di cose perenti, chi ormai come me avverte che nella propria occasione terrena il più è fatto e i ricordi superano di molto le speranze.
Soprattutto da giovane e ancora un po’ adesso, resto tuttavia disinteressato o sordo a suggestioni di carattere evocativo, spesso lente e a spirale come volute di fumo, alla maniera di Proust. Ebbene, Patti è un piccolo “possidente” di questo registro espressivo. E qualche volta mi ha giocato brutti scherzi. Ma prima di dirne qualcuno vorrei soffermarmi sul registro erotico – quello beninteso allusivo e totalmente ellittico della prosa degli anni Sessanta dove gli amplessi avvengono come nel buio, senza alcuna descrizione palese e conseguente “visione” cui siamo abituati noi – di molte sue pagine. Nelle movenze del cuore verso la donna di questi uomini di mezza età il desiderio sessuale si consuma nelle modalità descritte da Franco Califano nella canzone “Tutto il resto è noia”, ossia tristitia post e a volte pre coitum: pensieri morbidi e atrabiliari sul disfacimento della carne e sul passaggio del tempo che in Patti mi sembravano di uno stanco calligrafismo senza nucleo intimo. Adesso le rileggo e qualcosa mi smuovono dentro.
Ormai dai lontani anni dell’infanzia, gli anni delle lunghe dormite e dei risvegli inebrianti, delle giornate estive che non avevano mai fine, la morte si era avvicinata un bel po’. Dapprima a passi lentissimi quasi non avesse neanche voglia di arrivare, poi a poco a poco aveva accelerato l’andatura. Da qualche anno sembrava avanzare assai più velocemente, certi giorni si sentiva quasi il rumore dei suoi passi che si avvicinavo ogni ora, ogni minuto un pochino. Ed erano sempre passi in avanti, mai indietro neanche di una frazione di millimetro. Nel brevissimo tempo che si impiegava per fumare una sigaretta già la morte aveva fatto il suo passettino avanti, si era accostata di qualche secondo.
Oggi che cerco nella letteratura non più informazioni sul mondo, ma emozioni, ricordi, impressioni, spasmi e piccole “spremute di cuore” Ercole Patti ha fatto più di un passo verso di me. Se lo scrittore è un “avverbio di luogo” – togliete Parigi a Balzac e Lisbona a Pessoa e vedrete cosa vi resta – ritrovo in questo piccolo scrittore i miei luoghi e il suo tempo. E nell’incrocio di queste due coordinate mi sono imbattuto in passi come questo che rimestano tutta la mia sensibilità giovanile e precisi e concordanti ricordi del passato.
Ed era sempre il mare a portare la gioia, e il vento salmastro fra le case di piazza dei Martiri i giorni in cui si marinava la scuola. Il mare coi suoi sapori e i suoi odori; il sapore degli spicchi color ceralacca dei ricci lattiginosi, il sapore delle patelle e degli occhi di bue carnosi che rabbrividivano sotto le gocce di limone, il mare che faceva un rumore fresco e frusciante sotto i pali di legno che sostenevano gli stabilimenti balneari, l’odore delle tavole imbevute di acqua salata che cominciavano a vellutarsi di erbe marine verdi sulle quali posavano i piedi teneri delle ragazze che ancora dovevano cominciare la vita e volgevano intorno occhi nuovi nuovi. Il mare grande, calmo, felicemente disteso a perdita d’occhio che lasciava per tutta la giornata una sbavatura di sale secco sulle braccia dei ragazzi.
In certi momenti della lettura mi sono ritrovato tramortito dall’emozione, rovesciato sul letto con il libro in mano e gli occhi sbarrati in un vuoto sognante. Proprio.
P.s.
Rileggo adesso una pagina molto lusinghiera di Eugenio Montale (“Il secondo mestiere” pp.2197-8) proprio su questo libro di Patti.
Le donne e altri racconti
… qualcosa di meglio che una semplice raccolta di prose occasionali. In ogni pagina vi è presente il Patti che conosciamo, forse troppo pigro per tentare opere di maggior respiro, forse troppo artista per non accorgersi che ogni amplificazione potrebbe andare a scapito delle sue qualità più originali. … il vivissimo Diario Siciliano, puramente visivo e descrittivo, un poco alla maniera di Comisso. Sarebbe però un errore servirsi di un metro esterno perché Patti è sempre lui, qualunque misura egli possa adottare, sempre riconoscibile ad ogni pagina. E non si creda che i suoi connotati gli vengano solo dalla materia che gli è congeniale, e ch’egli può avere in comune con altri scrittori d’oggi, come la fauna del sottobosco cinematografico o gli squallidi ludi del nostro “gallismo” tradizionale. Non tanto questa materia in lui interessa, quanto la sua perizia di ritrattista vero senza verismo, la sua arte di riassumere figure e situazioni in un solo particolare significativo. (…) Probabilmente la sua qualità maggiore – quella che lo rende indipendente da Brancati – è nel suo restare sospeso tra il grottesco e l’idillio.
La vita ch’egli osserva lo disgusta ma non gli ripugna del tutto: condizione forse necessaria perché in lui – come avviene spesso anche in questi racconti – dal moralista possa nascere l’artista.
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