Letteratura

Tommaso Labranca e il trash come emulazione fallita

29 Agosto 2016

Sono molto addolorato per la morte, avvenuta oggi all’età di 54 anni, di Tommaso Labranca. Talvolta si entra nel mondo dell’intellighenzia grazie a un solo libro o a una sola intuizione. Gli siamo debitori del trash. Volgo la riflessione in soggettiva e dico che gli sono debitore di questo concetto che ha fecondato per un certo tratto la mia mente di lettore, dunque la mia sensibilità e il mio modo di partecipare alla categoria dell’estetico e non solo. In questo momento, lontano dai libri, sono amareggiato di non poter citare con più pertinenza i suoi primi testi: Andy Warhol era un coatto. Vivere e capire il trash (1994),  Estasi del pecoreccio. Perché non possiamo non dirci brianzoli (1995),  Chaltron Hescon (1998). La tesi di Labranca, che quando uscì sembrò provocatoria o bizzarra, è che il trash è una emulazione fallita di un modello alto. «Il presupposto che sta alla base di tutta la teoria del trash è questo: vi sono creatori originali e vi sono loro emulatori dagli esiti più o meno riusciti». Da Charlton Heston a  Chaltron Hescon.

Al momento in cui mi misi a studiare, con l’aiuto di De Gaultier, la teoria del bovarismo mi sovvenne questa lettura di Labranca, fatta inizialmente con molto scetticismo ma che si chiuse con una convinta apertura di credito. Ora, la formula del bovarismo di De Gaultier è questa: “Concepirsi diversi da ciò che si è”. C’è un momento in cui l’Io, coartato dal desiderio di essere diverso da ciò che  è, insoddisfatto della sua dimensione reale, si protende verso una dimensione “altra”, ideale,  ed esce dal baricentro della propria personalità. È un momento delicatissimo, perché solo dalla insoddisfazione di se stessi si può trovare lo stimolo per uscire fuori da se stessi ed entrare in una dimensione che potrebbe essere effettivamente la nostra, se assistiti da adeguato capitale intellettuale. È proprio tramite l’emulazione (René Girard direbbe attraverso il “desiderio mimetico”, incentrato sul modello emulativo: Don Chisciotte che insegue Amadigi di Gaula, ma anche Tommaso da Kempis che indica”l’Imitazione di Cristo”) che l’individuo “esce da se stesso”. Orbene, se egli ha il capitale intellettuale adeguato “diventa ciò che è”, ciò che lui non sapeva di essere (si è sempre incerti sui propri talenti e si va sempre a tentoni sulla propria effettiva vocazione: Ingres si credeva violinista e invece era pittore). Nel caso l’operazione riesca, la dimensione reale e ideale coincidono. Nel caso in cui il soggetto sbaglia,  per difetto di capitale intellettuale,  l’emulazione del modello “altro” che in genere è un modello “alto”, abbiamo ciò che Labranca chiamava il Trash, ossia l’emulazione fallita di un modello, riassumibile anche nella formula beffarda: intenzioni meno risultati uguale trash. Esempi: il politico italiano “che non è mai stato comunista” e che si credeva Kennedy, o il ragioniere sotto casa che metteva l’orologio sopra il polsino imitando Agnelli.

Orbene, partendo da questa semplice intuizione Labranca costruì un’estetica del trash con infinite variazioni, dandoci una spettrografia a tratti ilare e distaccata, a tratti così compiaciuta che è stato difficile distinguere l’entomologo dai suoi insetti, il teorico del trash (che tiene la testa fuori dalla melma) dal praticante il trash. La mediazione mimetica fu  attivata a tal punto da risultare impossibile distinguere in lui  lo spettatore dall’attore. Inoltre, la nostra  società ipermassmediata, sottoposta a infiniti focus emulativi, alla rifrazione multipolare, da specchi di barbiere, dei “modelli alti” suggeriti in maniera subliminale e mimetica dalla pubblicità, dalle riviste illustrate, dalla televisione, non poteva che moltiplicare esponenzialmente i fallimenti emulativi e la proliferazione del trash. Labranca ne fu attento e spassoso notomizzatore.

Emma Bovary  (una don Chisciotte in gonnella) è il modello letterariamente più alto del trash, del fallimento della personalità per difetto di attributi. Flaubert seppe cogliere  artisticamente il lirismo del fallimento, quella particolare atmosfera morale, un po’ ridicola un po’ malinconica che un suo critico, Albert Thibaudet, definì esemplarmente come “grottesco triste”: una forma di comico, giunto all’estremo, che non fa più ridere. Tommaso Labranca chiamò tutto ciò, usando una formula pop, da anglopovero, trash. Ma aveva ugualmente visto giusto, si divertì e ci fece divertire con intelligenza.

 

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