Letteratura
Renzi e Lucia: perché rileggere i Promessi sposi
Nel marzo scorso il nostro capo del Governo sulla scia di Umberto Eco sostenne che l’obbligatorietà della lettura scolastica dei “Promessi sposi” allontanava i lettori dal romanzo nazionale (Arbasino diceva che è come il Duomo in una città dove non ci sono altre chiese) e invitava però a leggere l’opera tutte le mattine per trarne ammaestramento. Io l’ho fatto questa primavera e questa estate punzecchiandomi con tutta una serie di domande e considerazioni che vi propongo di seguito.
Come, quando e perché Manzoni abbia scelto la forma-romanzo rimane un fatto tutto sommato misterioso (v. Ezio Raimondi, “Il romanzo senza idillio”). Il romanzo in Italia all’epoca in cui Manzoni si accinge a scriverne uno è genere negletto e totalmente estraneo – quale prassi letteraria e forma espressiva – all’establishment letterario nazionale. Sembrerebbe che la cosiddetta “prosa del mondo” (Hegel) e l’inclinazione narrativa tout court fosse stata affossata del tutto da secoli di esasperati sonettismo e lirismo petrarcheschi e cantabilità e vocalità in genere, che è rimasta dopotutto, dal Melodramma a Sanremo, come prima scelta nazionale artistica media: se ti vuoi esprimere “artisticamente” e dar sfogo alle tue “spremute di cuore” scrivi una canzone e cantacela: “X factor” permanente praticamente. E tutto ciò però nella terra che con Boccaccio aveva dato il la, seppur nelle forme del racconto o della ghirlanda di racconti alla narrativa occidentale moderna. Il racconto breve più che il romanzo aveva preso il sopravvento, diventando, la novella o il racconto, la forma privilegiata italiana del narrare dal “Decameron”, passando per i novellieri del ‘500 e del ‘600 fino alle “Novelle per un anno” di Pirandello, ma con qualche eco anche nei film a episodi degli anni Sessanta, penso ai “Mostri” o a “Boccaccio 70” .
Mancò in Italia l’uso del genere nella sua forma settecentesca (altrove Lesage, Richardson, Fielding, Prevost, ma anche Sade, Retif de la Bretonne e il romanzo pornografico addirittura, da noi solo Pietro Chiari e Antonio Piazza), perdemmo nel Settecento il contatto con l’Europa fredda e con quel genere letterario, già noto nel mondo ellenistico, ristabilito in epoca moderna dal genio spagnolo di Cervantes e rilanciato in Europa dalla nascente industria editoriale inglese e francese settecentesca trovando già il suo pubblico avido di storie e di avventure. Potevamo avere il nostro “Barry Lindon” o meglio il “Tom Jones” se l’abate Parini invece degli ariosi, incipriati, eleganti, ma anche ripicchiati versi del “Giorno” ci avesse dato un bel romanzo di formazione in cui il “giovin signore” prendeva i suoi rischi con l’esistenza in peregrinazioni e agnizioni piuttosto che perdersi in notti idiote inseguendo il “patetico gioco”.
Rischiavamo anche di perdere la forma ottocentesca del genere (ma con molti debiti verso quella settecentesca) se Manzoni il 24 aprile 1821 non l’avesse scelta. Senza mai avercene spiegate le ragioni peraltro. Inuzzolendoci per sempre sulle ragioni di quella scelta azzardata, coraggiosa ma repentina dopotutto. Rarissimi sono gli accenni che Manzoni fa al suo romanzo e al romanzo in generale nella sua corrispondenza. Il genere – a differenza delle tragedie – non sollevò in lui alcuna soffocante e paralizzante preoccupazione retorico-stilistica, salvo quella linguistica, ma era questione di ampio registro comunicativo, di estetica della ricezione si direbbe: come arrivare sia ai dotti che agli indotti, al colto pubblico e all’inclita guarnigione con una lingua condivisa, e questo in un contesto letterario exclusive direbbe Arbasino, ossia in una tradizione letteraria, cortigiana e aristocratica come quella italiana, che non si era curata di raggiungere il più grande pubblico possibile sia quando pour cause ancora non si era formato nelle forme a noi note, sia quando già pronto non trovò che l’abate Chiari– che lasciò il teatro veneziano e le lucrose commedie buttandosi a capofitto nel romanzo perché ci guadagnava di più – a soddisfarlo da un lato ma anche l’industria culturale di allora, quelle traduzioni che si approntavano a tambur battente per tutto il Settecento a Venezia (vedi G.B. Marchesi, Romanzi e romanzieri italiani del Settecento), la quale industria provvedeva, con massicce importazioni dall’estero, alla domanda crescente del pubblico italiano non coperta da un’offerta nazionale visto che i produttori-letterati locali erano ancora persi tra Filli, Amarilli e Clori e nelle Arcadie perenni dello spirito.
Istanza democratico-letteraria quella di Manzoni dunque; e già un punto a suo favore. Il fatto che il genere romanzo si presentasse lawless, privo di ogni regola, e nello stesso tempo ricettacolo di tutti i generi precedenti (teatro tragico e comico, saggio storico, dialogo drammaturgico, e un minimo di ut pictura poesis) deve essergli sembrato per queste ragioni una forma spontanea e coerente di espressione? A me non sembra. Occorreva qualcosa di più di una semplice opzione letteraria. Agli inizi dell’800, la scelta del genere-romanzo era sicuramente una scelta rischiosa, di tipo ideologico-programmatica per un letterato che campava del suo e non era un abatino in cerca di facili guadagni come Pietro Chiari (il primo romanziere “moderno” italiano): una scelta non precipuamente letteraria o espressiva, ma intenzionale, programmatica, ideologico-letteraria. Era come se oggi un impomatato e siderale letterato, solitario distillatore di versi ermetici, letti solo da altri lambiccati poeti o dal bravo Mattia Marchesini per dovere d’ufficio, decidesse su due piedi di scrivere sceneggiati per la televisione, aggiungendo al palinsesto basico delle 4 “C” di Berlusconi, calcio, cosce, canzoni e cazzate anche la telenovela di due giovani fidanzati che come nel romanzo alessandrino delle Etiopiche vengono separati dal capo dei briganti, attraversano avventure e disavventure e alla fine si ricongiungono nell’happy end assistiti forse dalla Pronoia, pardon si chiama Provvidenza quella così lì nel mondo cattolico. Con la scelta del romanzo era come scendere di due piani: dall’highbrow al lowbrow saltando il middlebrow, dalla stratosfera degli “Inni Sacri” (di un sublime liturgico illeggibile oggi ) al romanzo-romanzo, dal rarefatto carme al fumetto dell’epoca, dalle algide e pensierose tragedie allo sceneggiato popolare.
Sta qui il grande azzardo di Manzoni: versare il fuoco incandescente dell’Alta cultura (dove pullulano sottotraccia Bossouet, Nicole, Pascal, Montesquieu) nello stampo ultra-popolare del romanzo. E avendo come tema portante “alto di gamma” – ma tema che sicuramente interessava soprattutto il popolo-, la domanda disperante: quale giustizia in questo basso mondo? I prof di liceo di una volta ricordavano a questo punto che Manzoni intese allegare al romanzo la digressione “La storia della colonna infame”, a comprova che il tema del romanzo è la giustizia e non il giustizialismo fanatico, o meglio la domanda: «ma veramente “alla fine” viene dato in questo mondo “a ciascuno il suo” come promette il Vangelo»? Senza dimenticare che la giustizia è il tema perenne in Italia, un Paese, dove nonostante le apparenze si sorveglia poco e si punisce pochissimo (ognuno in Italia fa come gli pare, fa “tuono” a sé diceva Leopardi) e quando si comminano le pene le si dà spesso e volentieri a quelli sbagliati, ai minchioni che non si possono difendere e non hanno “santi in paradiso”. (Nel brillantissimo saggio di Marco Viscardi “Le lune di don Lisander” che invito a leggere, è detto che il romanzo “è una spietata riflessione sul male”; interpretazione che non mi sembra distante dalla mia come romanzo sulla giustizia, ossia riparazione, compensazione, remunerazione, castigo del male).
Un ultimo sguardo alla condizione del romanzo in Italia prima di Manzoni può meglio lumeggiare il suo azzardo. Non c’era stato in Italia l’ “Elogio di Richardson” di Diderot, ossia lo sdoganamento, da parte dell’alta cultura, del genere popolare per antonomasia. Ma quando esattamente Manzoni abbraccia la forma-romanzo? Tenendo d’occhio le date a me pare il 1810 l’anno cruciale. Sappiamo che Manzoni soggiorna quell’anno per un mese a Venezia, il centro propulsore del romanzo in Italia allora. Escludendo che volesse fare “come Chiari” sicuramente Manzoni aveva il genere davanti a sé, forse nelle botteghe dei librai-editori, Pasinelli, Gatti, Bassaglia, Savioni, ecc. bello e formato, un prodotto popolare alla portata di fantesche e militari. Il romanzo era lì con le sue straordinarie risorse pluridiscorsive e plurilinguistiche, coi suoi mille livelli di lettura, perché il romanzo è il genere multilevel per eccellenza. Vuoi la pagina iperletterata col suo falso ma perfetto stile antiquario? Ed ecco quella straordinaria prefazione secentesca. E lo spagnolo e il latinorum in un’unica pagina, che favorisce intarsi linguistici di gran scuola. Vuoi il registro popolare, giocoso-satirico, la satira menippea addirittura per far contento Michael Bachtin?, ed eccoti i ragionamenti a pera di don Abbondio e don Ferrante. E come far parlare i popolani? Esattamente come “mangiano”, e quindi, aprendo a caso il romanzo, espressioni tipo “drizzare le gambe ai cani”, “vaso di coccio fra vasi di ferro”, “indovinala grillo”, “uccel di bosco”, “cantare e portare la croce” ecc. ecc.
Leggere e rileggere i “Promessi sposi” perché è il romanzo italiano e degli italiani per eccellenza. Il “carattere nazionale italiano” è iniziato con la Controriforma infatti, nel ‘600, proprio ai tempi dei “Promessi sposi”. Era dopotutto l’opinione di Sismonde de Sismondi, contro cui lo stesso Manzoni ne “Le osservazioni sulla morale cattolica” entrò vanamente in conflitto (non riuscì a completare le “Osservazioni”, come è noto). Sismondi (1773- 1842) argomentava che attraverso il sacramento della Penitenza (statuito come lo conosciamo ancora oggi, anche se nessuno più si confessa, dal Concilio di Trento) si offriva un facile lavacro periodico alle coscienze così rese flebili ed esenti dall’interiorizzazione del comando morale. Sono punti di vista certamente: erano d’accordo con Sismondi sia Leopardi che De Sanctis, come Gobetti o Gramsci, in disaccordo altri, specie di parte cattolica, com’era prevedibile. Ma è difficile negare che siamo figli del ‘600: lì sono nati gli italiani. Lì si mettono le fondamenta di quella che l’acuto Ermanno Rea chiama la “fabbrica dell’obbedienza” di un Paese cattolico in cui tutti i giorni il TG1 bacia la pantofola al Pontefice anche quando ha solo da dire ovvie verità come “Oggi è mercoledì”. Perché in realtà noi non siamo figli dei Comuni o del Rinascimento come non lo siamo dell’Impero romano, allo stesso modo in cui non sono discendenti dei Faraoni gli attuali egiziani o figli di Pericle i vari Tsipras e Varufakis. La storia ha i suoi snodi come le invasioni di altri popoli e i suoi momenti di rottura come le riforme religiose. Sono le religioni che formano le civilizzazioni culturali: e noi siamo figli della controriformata Chiesa Cattolica del Papa Paolo IV Carafa più che di Dante e men che meno di Giulio Cesare.
Leggere e rileggere i “Promessi sposi” è diuturna incombenza del giorno, direbbe Gadda, per ogni italiano. È anche il romanzo da offrire con le dovute decrittazioni ai nuovi arrivati per capire l’italiano di base, per “impaesarsi” subito nel nostro Paese, per capire che tra l’italiano don Abbondio e l’italiano Alberto Sordi (che ce lo siamo meritato, come dice Nanni Moretti) non c’è che una linea retta. “ I Promessi sposi” siamo noi.
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