Letteratura

Quando Umberto Eco spiegava: “Noi, la generazione più fortunata d’Italia”

20 Febbraio 2016

È morto Umberto Eco. Aveva 84 anni, compiuti da poco. La morte lo ha colto venerdì in tarda serata, nella sua abitazione. Semiologo e scrittore di fama mondiale, probabilmente l’intellettuale italiano vivente più conosciuto fuori dai confini nazionali, Eco raggiunse il successo internazionale con il romanzo Il nome della rosa, uscito nel 1980. Ripubblichiamo qui una delle ultime grandi interviste, rilasciata al quotidiano spagnolo El Pais nel 2010.

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Si divide fra l’odio viscerale verso gli sportivi e l’amore verso i suoi nipoti. A 78 anni, il professore è in piena forma. Con lui comincia questa serie di interviste sulle lezioni dell’esperienza.

Il personaggio di Umberto Eco è tanto più grande quanto più passa il tempo. E non solo in senso intellettuale, perché il suo corpo è quasi raddoppiato, così come il suo peso, la sua postura e la sua imponenza.

Possiede quasi tutti gli attributi delle persone amabili che non si dimenticano, e una chiosa che spesso ispira allegria e sorrisi. Con le sue 38 lauree honoris causa, confessa che deve rinunciare spesso ad accettarne altre, in parte perché già conosce a memoria la cerimonia, le lodi e tutti gli inconvenienti della riverenza universitaria, ma anche, dice, perché fare viaggi faticosi che non gli aggiungono o tolgono nulla?

Ma ci sono eccezioni. Una è stata Siviglia un paio di mesi fa. Da sempre, dice, voleva conoscere questa città importante, e l’appuntamento che aveva all’Università lo scorso novembre è coinciso “con il fatto che ho preso una bronchite tremenda, con molta febbre, e non ho potuto viaggiare.”

“Anche mia moglie c’è rimasta molto male in quell’occasione, ed ora che hanno rinviato gentilmente la cerimonia è lei che non è potuta essere presente. Però ci torneremo. Siviglia è una città meravigliosa”.

Quanti libri ha pubblicato Umberto Eco? Un’infinità fra saggi e romanzi. Dal suo primo lavoro su San Tommaso d’Aquino (Il problema estetico in San Tommaso d’Aquino nel 1956) fino al suo ultimo racconto: La misteriosa fiamma della regina Loana (2004).

Eco è nato ad Alessandria, una città italiana del Piemonte, il 5 gennaio 1932. Con i suoi 78 anni, fanno impressione il vigore mentale e la forza vitale che imprime alle risposte, alle critiche, alle riflessioni ed ai movimenti. Porta un cappello che gli dona un carattere di ispettore fra l’antico e l’intrigante e si appoggia ad un bastone che, considerando il suo brio, potrebbe rompere la testa ad un nemico o a uno stupido.

La varietà dei suoi lavori in televisione, nelle case editrici o nell’università, e la capacità mentale di ottenere opportunamente le cariche accademiche alle quali aspirava, hanno contribuito ad arricchire la sua saggezza. Ma d’altra parte è stata la sua straordinaria condizione di saggio ad ispirargli un’opera tanto universale, tradotta in centinaia di lingue e stampata in milioni di esemplari.

Cominciando dal principio… “Come ho cominciato l’esperienza intellettuale della mia vita? Guardi, ho cominciato subito a lavorare, dopo aver finito l’università, in televisione, agli inizi della televisione, intorno al 1954″.

E cosa faceva in televisione? “Ero un funzionario negli uffici, che non appariva sullo schermo, però è stata una esperienza enorme. Allora si faceva tutto in diretta, così capitava che anche noi funzionari dovessimo aiutare se qualcosa non funzionava. Io allora avevo 22 anni. Mi ero appena laureato all’Università di Torino e per miracolo mi presentai ad un concorso in televisione e lo vinsi insieme ad altre persone”.

A Torino? “No, a Milano. Vinsi insieme ad altre persone anche abbastanza conosciute: una era Gianni Vattimo, il filosofo, e l’altra Giulio Colombo, che è stato direttore dell’Unità, eccetera. E questo ha condizionato senza dubbio il mio interesse per i problemi della comunicazione.”

In che cosa si era laureato? “In estetica medioevale, una cosa completamente diversa. La televisione è stata per me un’esperienza molto importante. Non ho fatto nulla di interessante, ma ho visto un sacco di cose, perché la televisione a quel tempo era un posto in cui uno, passaggiando per i corridoi, poteva incontrare Igor Stravinski o Bertold Brecht. A me è successo. Tutto passava da lì… In seguito ho dovuto lasciarla perché osservavo solo quello che succedeva ma non facevo nulla di interessante, e sono andato a lavorare alla casa editrice Bompiani, che continua ad essere il mio editore. Nel frattempo continuavo i miei studi e le mie ricerche, ho ottenuto altri titoli universitari, ho cominciato a collaborare con altre case editrici e a dare lezioni all’università, e nel 1975, quando ho avuto il posto definitivo a Bologna, ho smesso di fare quello che stavo facendo.”

E quindi? Si è sposato? “Lei vuole sapere tutto. Vedrà: la prima cosa che ho fatto prima di entrare nella casa editrice, dove in seguito ho diretto le collezioni di filosofia, è stato un gran libro illustrato. La storia delle invenzioni che bisognava impaginare… Non so se lei ha visto i miei ultimi saggi, La Storia della Bellezza e la Storia della Bruttezza. Bene, si dà il caso che alla fine della mia vita sono ritornato a fare la stessa cosa, libri illustrati.

C’era un grande grafico, Bruno Munari, uno dei più importanti designer italiani del secolo. Un giorno portò un’assistente che era una designer tedesca che studiava storia dell’arte e così, per caso, ci siamo sposati. E’ in Italia da cinquant’anni, ma continua ad essere tedesca”.

Ed ha avuto figli? “L’anno 1962 è stato il più importante della mia vita perché mi sono sposato, ho concepito il mio primo figlio, che è nato l’anno seguente, ho pubbilcato il libro che mi ha dato più fama all’epoca, Opera Aperta, ed è morto mio padre. Così che di colpo sono diventato adulto, ero io il padre.

Era molto unito a suo padre? “Sí”.

Cosa faceva suo padre? “Era impiegato in una impresa privata. Sì, avevamo una buona relazione”

Quanti figli eravate? “Ho una sorella. E ho avuto due figli: un figlio ed una figlia. Mio figlio ha lavorato per 12 anni a New York nel mondo editoriale. Adesso lavora per l’ufficio stampa della RBS a Roma e mia figlia è architetto. È tutto. Ah, e ho due nipotini, di nove anni e mezzo e di uno e mezzo”.

Che le piacciono molto… “Essere nonno è un lavoro meraviglioso. Perché si hanno tutti i piaceri e i vantaggi e nessuna responsabilità.”

Chiaro. Pubblica quindi Opera Aperta, trionfa a livello internazionale e dopo arriva un’altra delle sue opere di riferimento, Apocalittici e integrati nella società di massa. Apocalittici e integrati è forse il mio libro di saggi più conosciuto nel mondo spagnolo, Spagna e America Latina, non so perché. In realta non era un progetto. Come le ho detto, mi interessavano i problemi della comunicazione di massa, la televisione, eccetera, e scrivevo saggi in qualche rivista. All’improvviso hanno aperto un concorso per una cattedra in Comunicazione, concorso che non vinse nessuno perché a quel tempo non esisteva una definizione di cosa fosse la comunicazione di massa. Si presentò la gente più disparata: un sociologo, uno psicologo, uno storico… Così che la commissione non sapeva che cosa fosse un comunicatore. Però come per tutti i concorsi bisogna avere pubblicazioni, riunii tutti i miei saggi uscite sulle riviste, che per caso sono diventati Apocalittici e integrati. E bisogna dire che mi aiutò il mio editore, Valentino Bompiani, uno dei più celebri editori italiani insieme a Mondadori. Come qui [in Spagna, Ndt] Carlos Barral, personaggi che fanno già parte della storia.

Bompiani era più vecchio e aveva un talento eccezionale per inventare titoli. Per esempio, nel caso diOpera Aperta, io dovevo scrivere un libro per Bompiani che mi aveva chiesto Calvino. Però Bompiani mi disse: “Perché non riunisce questi saggi che ha già pubblicato?”. “Io devo scrivere un libro per Einaudi” gli dissi. “E quando lo farà?”. “Ho bisogno ancora di cinque o sei anni”. E tornò all’attacco: “Perché nel frattempo non riunisce questi saggi dispersi e non li pubblichiamo qui?” Non mi piaceva pubblicare per la casa editrice per cui lavoravo perché mi sembrava qualcosa tipo di famiglia, ma giacché me lo chiedeva lui.. “Come lo intitolo?” Forma e indeterminazione delle poetiche contemporanee?”. “Lei è pazzo”.

Quando avevo già riunito la collezione di saggi per Apocalittici e integrati mi domandò di nuovo: “Come lo intitola?” “Problematiche della comunicazione di massa”. “Lei è pazzo”. Andò a guardare l’ultimo saggio, cortissimo, di tre pagine, intitolato Apocalittici e integrati e dichiarò: “Il libro si chiama così”. Gli risposi: “Consideri che non ha nulla a che vedere con gli altri saggi, bisognerebbe spiegarlo”. “Beh, scriva una nuova introduzione e lo spieghi”. E scrissi una introduzione di 40 pagine che cambiò tutto il libro e lo fece diventare Apocalittici e integrati.

Non le sembra che adesso ci troviamo nella stessa fase, di Apocalittici ed integrati? Un taglio fra coloro che difendono i valori persi e deplorano il presente come una degenerazione culturale e morale. “Sí, questo era lo stesso dibattito tipico di quell’epoca in cui i filosofi, gli intellettuali, non riuscivano ancora a capire il mondo tecnologico della comunicazione, di modo che esisteva questa divisione fra coloro che facevano comunicazione di massa e, diciamo, gli aristocratici intellettuali che non la capivano. Però oggi è diverso, perché i più aristocratici fra gli intellettuali capiscono perfettamente questi problemi, usano Internet… In tutti i casi non è una critica dall’esterno, ma dall’interno, di intellettuali che usano mezzi di comunicazione di massa, vedono la televisione, usano il computer e possono a loro volta criticarlo. Così che mi sembrerebbe molto difficile dire oggi: “Lei è apocalittico o lei è integrato”.

Però questa lamentela sul fatto che la gente non stabilisce relazioni personali a causa dell’onnipresenza di Internet… “Questa è la critica che facciamo tutti. Però prima gli apocalittici erano quelli che criticavano e rifiutavano. Oggi sono quelli che criticano, però allo stesso tempo usano questi mezzi, così che è un discorso interno: io sono molto critico nei confronti di Wikipedia, perchè contiene notizie false. Ce ne sono anche su di me, false e non, però utilizzo Wikipedia, perché altrimenti non potrei lavorare. Mentre scrivo, per esempio di Tirso di Molina e non mi ricordo quando nacque, vado su Wikipedia e lo trovo, mentre in passato dovevo prendere l’enciclopedia e impiegavo mezz’ora. Prima gli apocalittici non usavano queste cose: scrivevano a mano con piume d’oca.”

Crede di aver avuto una percezione abbastanza corretta delle situazioni culturali successive?“Guardi, il professor Vázquez domani farà un discorso su di me, e dice che sono stato uno di quelli che hanno cercato di capire e criticare il momento nel quale viviamo. Faccio parte di una generazione per la quale il presente era l’ambiente naturale: viaggiavamo in aereo, in automobile, vedevamo televisione, mentre tutta una generazione precedente vedeva la cultura come rifiuto del presente. Si chiudevano nella loro torre d’avorio e non volevano sapere nulla di quello che succedeva. Io vengo da una generazione che ha pensato che l’intellettuale deve mettersi in gioco col presente e con tutti i suoi aspetti. Abbiamo rispetto del presente, noi giovani che non hanno più di ottant’anni, un atteggiamento differente da quello dei nostri padri o dei nostri maestri.”

Le manca qualcosa nel suo percorso professionale? Avrebbe voluto fare qualche altra cosa a un certo punto? “Credo che la mia generazione sia stata molto fortunata, perché siamo arrivati alla fine della guerra a 13 o 14 anni, i nostri fratelli maggiori erano morti o non avevano potuto terminare gli studi. Noi siamo arrivati quando c’era una grande espansione economica. Abbiamo avuto tutto. Mio figlio e gli studenti più giovani non hanno avuto tutte queste possibiità. Noi siamo stati una generazione che dovrebbe vergognarsi per quanto è stata fortunata: ci hanno dato tutte le possibilità. Io non posso lamentarmi di nulla; forse di non aver approfittato di tutte queste possibilità. Quelli che avevano dieci anni più di noi, o sono morti o hanno avuto una vita molto difficile. Questo spiega anche il tremendo paradosso per cui la mia generazione continua ad essere al potere: dovevamo stare in un’ospizio per poveri anziani, dovrebbero essere al potere coloro che hanno 30 o al massimo 40 anni. E non è che vogliamo stare al potere, è che ce lo chiedono e siamo obbligati… Essere al potere non vuol dire essere il capo del governo, ma direttore della collezione, direttore della rivista, direttore della casa editrice… Siamo condannati a rimanere al potere perché le generazioni successive non hanno avuto le opportunità che noi abbiamo avuto.

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Adesso sarebbero già due generazioni che sono trascorse in bianco. “Una è quella degli studenti del ’68. Un momento molto difficile. E quelli dopo, peggio ancora. Naturalmente, ho studenti di 30 anni che sono bravissimi, dei geni, ma la percentuale è bassa. Noi all’80% abbiamo occupato tutti gli spazi; loro ne occupano il 30%. Questo fa venire una gran malinconia”.

Una sensazione di cattiva coscienza, anche. “Noi dovremmo essere sdraiati su un’amaca a leggere e a dare buoni consigli”.

Come trova l’Italia attuale, con Berlusconi al centro di tutto? “Prima si diceva che il futuro dell’Europa sarebbe stato gli Stati Uniti. Oggi, per disgrazia, il futuro dell’Europa sarà l’Italia. L’Italia di Berlusconi preannuncia situazioni analoghe in molti paesi europei: dove la democrazia entra in crisi, il potere finisce nelle mani di chi controlla i mezzi di comunicazione. Perciò non preoccupatevi per noi, preoccupatevi per voi stessi.”

E lei spera che Internet possa rappresentare un contributo democratico alla attuale crisi della democrazia? “Dico sempre che la televisione è buona per i poveri e cattiva per i ricchi. Vuol dire che la televisione ha insegnato a tutti gli italiani a parlare italiano, quelli che non avevano istruzione hanno imparato dalla televisione dove si trova l’India. In cambio, le persone istruite vedendo la televisione diventano più stupide, così che la televisione è buona per i poveri e cattiva per i ricchi. Però non ricchi in senso economico. Noi siamo i ricchi. Lo stesso avviene con Internet: in certi paesi come la Cina è uno strumento fondamentale per poter diffondere notizie che non arriverebbero in un altro modo. In altri paesi dove queste notizie possono arrivare, è una maniera di rinchiudere i giovani in una solitudine completamente virtuale, fuori dalla realtà.

Però Internet non è una cosa sola, è molte cose. È come un libro: un libro è buono o cattivo? Se consideraMein Kampf è cattivo, mentre la Bibbia è buona. E lo stesso Internet: è uno strumento che in molti casi ha cambiato la nostra vita, la nostra capacità di documentarci, di comunicare, eccetera. Ed in altri casi si accinge a diffondere notizie false. Uno non sa mai quello se che gli arriva attraverso Internet è vero o falso. Non accade lo stesso con i quotidiani o i libri, perché più o meno uno sa che El País è diverso dall’Abc, che Le Figaro è diverso da Libération. E a seconda del quotidiano che compra, sa qual’è la posizione del quotidiano, si fida o non si fida. Lo stesso succede con i libri. Se uno vede che un libro è di Mondadori o della Columbia University può pensare che forse qualcuno ha scelto questo libro e ha impedito che si pubblicassero altre cose, però se vede un editore strano non può sapere nulla dall’inizio. Con Internet uno non sa mai chi parla.”

Non succederà anche con Internet che ci saranno firme o editori di cui ci si potrà fidare? “No, perché chiunque può connettersi: io, lei o un signor X che è pazzo; questo signor X non può creare una casa editrice o un quotidiano, ha bisogno di gente che lo appoggi. Ci sono filtri sociali: prima che qualcuno crei un quotidiano ci sono quelli che investono, i giornalisti.. Ci sono filtri: mediante colui che fornisce il capitale, tramite i giornalisti, sappiamo che è fascista, o comunista… Invece con Internet il signor Tale non si sa chi è. Lei o io, che siamo persone con una certa cultura, possiamo accorgerci spesso se chi crea un sito Internet è pazzo oppure no, però se si tratta di un sito di fisica nucleare, lei non se ne rende conto, e tantomeno io. Quindi immagini i giovani che usano Internet a scuola e possono trovare un sito razzista, un sito negazionista… E non sanno fino a che punto credergli o meno”.

Che cosa pensa del movimento che propugna il sapere di massa, la condivisione delle fonti, il pensiero creato dalla moltitudine che accede alla rete? “Glielo ho già detto: Internet è come i libri, ci sono libri buoni e libri cattivi. Per esempio: in politica oggi in Italia, con la crisi dei partiti, si stanno creando gruppi che in italiano si chiamano di società civile, che manifestano, ma non sono un partito. Questi movimenti comunicano via Internet formando gruppi anche di 300.000 persone. In questo senso Internet diventa uno strumento molto importante di libertà. Allo stesso modo, un giovane da casa sua accede a un sito nel quale gli dicono che l’Olocausto non è mai avvenuto, o in un sito pornografico. Nell’ultimo articolo che ho scritto dico: “Cerchiamo su Internet Padre Pio”; mettevo in evidenza i 1.400.000 siti nei quali appare questo nome. Cerchiamo Gesù: 3.500.000. Cerchiamo porno: 130.000.000. Il porno batte cento volte Gesù Cristo. Cosa facciamo di fronte a questa immensa quantità di messaggi? Da una parte Internet può essere uno strumento di liberazione per i giovani cinesi che possono dire cose che il regime impedisce di dire, ma allo stesso tempo possono essere corrotti dalla enorme quantità di messaggi sessuali che li raggiungono.

Prima il politico medio concepiva il sesso come un momento di riposo: quando aveva vinto la battaglia di Austerlitz…con chi faceva sesso? Con la contessa Castiglione, con Sarah Bernhardt, con donne che valevano la pena. Adesso questi politici non lo concepiscono come un momento di riposo dopo il lavoro, ma come luogo di lavoro, e si accontentano di puttanelle.

Pensi alla storia dei sacerdoti: prima un sacerdote viveva in parrocchia e vedeva solo la perpetua, brutta e con i baffi, e leggeva l’Osservatore Romano. Adesso vede la televisione tutti i pomeriggi e vede seni, culi, e poi diciamo che diventa pedofilo. Il povero diavolo ha davanti a sé una serie di provocazioni. Il poverino deve vedere alla televisione pubblica cose che prima… E lo stesso succede nel mondo politico: è tutta una degenerazione. E lo stesso è Internet: sono quelli che visitano i 130.000.000 di siti pornografici invece dei 3.000.000 siti su Gesú”.

Forse con questa ascesa dei movimenti sociali di cui abbiamo parlato sta nascendo il germe di una democrazia diversa. Come si può ancora tollerare l’idea che un Governo sia eletto per quattro anni durante i quali non si possano licenziare i suoi esponenti come se avessero vinto un posto da dipendente pubblico? “Infatti non abbiamo riflettuto abbastanza sul fatto che siamo arrivati alla fine della democrazia rappresentativa. Quando negli Stati Uniti vota solo il 50% dei cittadini ed uno deve scegliere fra due candidati, questi è eletto dal 25% dei cittadini. Si tratta di candidati che non sono eletti dal popolo, ma dall’organo interno. Chi rappresenta questo candidato? Quanti cittadini rappresenta? Qual è la differenza con il sistema sovietico, nel quale il Soviet Supremo eleggeva tre candidati, in seguito si discuteva e ne sceglievano uno? La differenza sta nel fatto che negli Stati Uniti esiste il controllo della società civile, delle lobbies, delle organizzazioni culturali, religiose e industriali, c’è una serie di poteri che controlla il potere centrale, cosa che nella Russia stalinista non esisteva.

Però non è una democrazia rappresentativa. Stiamo arrivando ad una crisi tragica della democrazia, continuiamo a fare finta che esiste la democrazia rappresentativa e che sono io, in quanto cittadino, ad eleggere i miei rappresentanti, però non è vero. La nascita di questi movimenti sociali fuori dai partiti, che in Italia si chiama Il Popolo Viola, che si riunisce via Internet, può rappresentare il futuro, o la correzione di una democrazia rappresentativa in crisi. Io non sono tra quelli che sostengono che bisogna censurare Internet. Aspettiamo di vedere che cosa succede. Come l’Italia è stata il laboratorio del fascismo, copiato poi dalla Spagna, in questo momento è il laboratorio del berlusconismo, e bisognerà vedere cosa succede”.

Come definirebbe il berlusconismo, che secondo lei sarà il destino dell’Europa? “È un peronismo europeo, nonostante non abbia portato al governo un’attrice”

Adesso sta preparando un saggio o un romanzo? “Un romanzo, ma non parlo mai dei miei romanzi. Come il Pendolo di Foucault che mi ha richiesto otto anni, l’ultimo romanzo ne vorrà altrettanti, calcolando dalla pubblicazione de “La misteriosa fiamma della regina Loana” del 2004″.

E come mai ha scelto il romanzo? Se le andava bene con il saggio, qual è stato il motivo che l’ha spinto a scrivere Il nome della rosa? “È una domanda che mi hanno rivolto in molti e di fatto non ho una risposta, quindi ho dato dieci risposte diverse e tutte vere. Uno: perché ne avevo voglia. Perché fai l’amore con questa donna? Perché ne hai voglia. Senza tante spiegazioni. Due: perché mi è sempre piaciuto raccontare, solo che raccontavo storie ai miei figli e quando sono cresciuti le ho raccontate a qualcun’altro. Perché ho sempre raccontato storie.

Anche i miei saggi sono narrativa. Perché nel 1975 ho avuto la cattedra e non potevo desiderare niente di più nella vita. Avevo la cattedra, i miei libri si traducevano in varie lingue, e che faccio adesso? Allora mi è venuto in mente di rispondere ad una nuova sfida, fare una cosa nuova. Perché un giorno è venuta un’amica e mi ha detto che stava preparando una collezione di racconti polizieschi scritti da scrittori non-professionisti. Lo stava chiedendo a politici, sociologi… Tutti libri di cento pagine. Io le dissi che non potevo scrivere un libro poliziesco; in primo luogo perché non so scrivere i dialoghi, e poi se avessi dovuto scrivere un libro sarebbe stato una pazzia medioevale e sarebbe stato di 500 pagine. Sono tornato a casa e ho cominciato a scrivere una lista di nomi.

L’altra risposta è che avevo quasi 50 anni. A 50 anni i signori mollano la loro donna e fuggono con una ballerina. Io invece ho scritto un romanzo: meno costoso e meno peccaminoso. Le ragioni sono tutte e nessuna. L’unica è questa: guardi la mia linea della vita, arriva fino a qui, arriva a un punto, si interrompe e comincia di nuovo. Cosa vuol dire questo? Che qui ho avuto un incidente, ho perso la memoria e ho cominciato una nuova esistenza; o che qui ho smesso di essere solo un professore e ho cominciato ad essere uno scrittore, a guadagnare di più, e la mia vita è cambiata”.

Da cosa ha ricevuto più soddisfazioni? Dai romanzi o dai saggi? “Non lo so. Ovviamente i miei saggi vendevano 10.000 copie ed i romanzi 1.000.000. Pago più tasse scrivendo romanzi che saggi, ma la soddisfazione… Non so, adesso si pubblicano molti libri su di me. Alcuni sulla mia attività narrativa, altri su di me. Alcuni mi fanno arrabbiare, perché sembra che non hanno capito nulla; ma non so se mi producono più piacere gli uni o gli altri”.

In Italia si trova bene come intellettuale? Si considera molto rispettato? “Beh, non mi lanciano uova quando parlo… ma mi apprezzano molto di più in Francia, Germania, Stati Uniti o Spagna che in Italia. Questo è ovvio, normale. I francesi, per esempio, credono di essere sul piano della cultura i migliori del mondo e se a loro piace qualcuno decidono che è francese. Hanno deciso che Leonardo è francese, Modigliani è francese, Picasso è francese, e mi considerano francese. Devo dire che in Francia godo di una popolarità commovente, anche perché la Francia è stata il primo paese straniero in cui sono andato, a 20 anni. Mi sono innamorato di Parigi e mi capita una cosa strana: se sono a Milano, in treno, e qualcuno mi dice:”Guarda, Umberto Eco”, mi dà un po’ di fastidio, perché preferirei stare tranquillo, solo. Quando questo succede nella piazza della Sorbona, sono felice”.

Ha vissuto in Francia? “Ho una casa a Parigi e ci vado qualche volta. Non ci ho vissuto mai più di un mese o due. Penso che per lo meno la metà dei francesi crede che io sia francese”.

E come sta di salute? “Le interessa anche questo? Mi fa male il ginocchio e ho l’iperglicemia”.

Fa attenzione? “Sì, bevo solo whisky, che non ha zucchero. Il dottore dice che non va bene che beva, però non ha zucchero.”

Da quando cammina con il bastone? “Da un anno, per il ginocchio. Ho un dolore al menisco per la perdita di cartilagine. Io dico: Delenda cartilago, capisce? Come Delenda Cartago. Però per tutta la mia vita ho sognato di camminare con un bastone. Quindi adesso ho quattro bastoni: uno dell’800, questo napoletano e altri due. Sono molto contento di portare un bastone: le auto si fermano; se ti cade qualcosa per terra te lo raccolgono. Quando ero giovane pensavo che mi sarebbe piaciuto uscire di casa e andare al bar con un bastone e che all’entrata di tutti i negozi la gente mi salutasse e mi dicesse: Come sta professore? È meraviglioso”.

Non ha fatto sport? “Solo nuoto”.

Però le è piaciuto il calcio? “No, no. Camminare sempre. A New York percorrevo 60 isolati. Adesso no. Adesso passo tre mesi l’anno nuotando. Degli altri sport nulla. Odio gli sportivi, spero che si uccidano fra loro”.

Però il calcio, parlando di cose di massa, non l’ha mai interessato? “No, no. Nella mia giovinezza sono stato campione di autogol. Ho i piedi piatti. I miei compagni di classe giocavano a calcio ed io preparavo gli annunci, ma non ho mai partecipato. E molti che hanno fatto sport sono morti dieci anni prima di me”.

E dipingeva? “Disegni. Per diletto. E ho suonato anche il flauto, ma adesso mi fanno male i pollici. Per il resto nulla”.

Vabbè, ha molte altre soddisfazioni. “I nipoti”.

 

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Intervista pubblicata originariamente su El Pais, il 25 Aprile 2010

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