Letteratura

Un popolo di poeti, ma chi li legge oggi?

29 Maggio 2015

Provate a chiedere a un avvocato, a un medico, a un ingegnere o anche a un pubblicitario di dirvi quali siano i poeti italiani di età compresa tra i settanta e i quarant’anni che apprezzano di più. È abbastanza facile che molti tra gli intervistati non saprebbero che cosa dire, quali nomi fare. Potrete obiettare che si tratta di un test del tutto empirico, a cui sono ammesse numerose eccezioni. D’accordo, è così. Ma è probabile che, ripetendo l’esperimento, si avrebbe alla fine l’impressione che i poeti italiani contemporanei, anche quelli con un percorso più solido, fuori dall’ambito stretto di chi scrive poesia, di chi la legge e la studia per passione o per lavoro, siano poco conosciuti, anche tra persone di buona cultura.

C’è chi può considerare la cosa ovvia e legata a questioni di mercato: si vendono pochi libri di poesia, è normale che i poeti non siano conosciuti dal grande pubblico. I dati Nielsen indicano un calo recente delle vendite: si stima che nel 2014 in Italia siano stati venduti circa 527.000 libri di poesia, oltre il 20% in meno rispetto al 2009, per un fatturato di 6.248.128 euro, pari allo 0,59% del mercato. Un editore storico come Crocetti ci fa sapere che negli ultimi anni le sue vendite sono sensibilmente diminuite. Einaudi invece dichiara dati più confortanti: tirature medie attorno alle 2mila copie e numeri decorosi per alcuni classici ripubblicati anno dopo anno. Si va dalle 113mila copie di Pablo Neruda con “Poesie” alle 92mila di Cesare Pavese con “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” e alle 50mila di Samuel Taylor Coleridge con “La ballata del vecchio marinaio”.

Ma non è questo il punto, la poesia, salvi rari casi, non ha mai venduto molto. Tuttavia, se, prendendo un caffè al bar, si chiede ai presenti chi erano Eugenio Montale e Giuseppe Ungaretti è probabile che molti, o tutti, sappiano rispondere. E lo stesso succederebbe se con una macchina del tempo ci si potesse fiondare in un bar di cinquanta anni fa. Insomma, non è azzardato affermare che in Italia alcuni decenni fa la poesia e i poeti erano ben più conosciuti, se non letti, di quanto lo siano ora. Eppure i poeti italiani restano numerosi. Ma hanno perso visibilità, sono, per usare una locuzione moderna, familiare agli esperti di marketing, meno percepiti che in passato.

E non è secondario notare che la progressiva perdita di visibilità e di rilevanza collettiva della poesia in Italia, verosimilmente, inizia a farsi più acuta tra gli anni ’60 e gli anni ’80, quando alcuni dei poeti maggiori di quel periodo, quali Vittorio Sereni, Attilio Bertolucci, Giovanni Raboni e Antonio Porta si trovano in una posizione di forza all’interno dell’industria culturale, ricoprendo ruoli di vertice presso editori come Mondadori, Bompiani, Guanda e Feltrinelli. Quali sono le ragioni di un cambiamento così rapido? Il buon senso ci dice che la domanda potrebbe non avere una risposta, almeno non una risposta chiara, immediata e lineare. La diffusione della conoscenza, la fruizione della cultura da sempre seguono logiche complesse, si legano a diversi fattori, a processi lunghi e di ampio respiro. Però, forse è opportuno interrogarsi sul tema, approfondire il discorso.

La critica si è accorta per tempo del fenomeno e già dieci anni fa ha provato a dire la sua. Nel saggio “Sulla poesia moderna” (Il Mulino, 2005) Guido Mazzoni, poeta e professore di Critica letteraria e Letterature comparate all’Università di Siena, sostiene che negli ultimi due secoli la poesia sia stato il mezzo per esprimere soprattutto esperienze private, singolari e non confrontabili. «La poesia è il più soggettivo ed egocentrico dei generi letterari, quello che, nella sua forma più comune, parla di contenuti personali in uno stile che vuole essere personale, cioè lontano dal modo ordinario di dire le cose. Contiene un elemento narcisistico che, in una società monadica, gremita e divisa in nicchie, finisce per disturbare il narcisismo altrui, perché ignora i luoghi comuni grazie ai quali gli esseri umani comunicano, magari sostituendoli con altri luoghi comuni, più settoriali. Non a caso il poeta è il primo artista a perdere il mandato sociale». Mandato che di recente, secondo l’autore, è stato raccolto dalla canzone, più adatta a parlare ai molti, a contenere in forme sintetiche quel bisogno profondo e tipico dell’umanità evoluta di rappresentare con le parole memorie, emozioni e immaginazioni. Per Mazzoni il processo, tuttora in atto, non è reversibile: «Mi sembra innegabile che, per la storia sociale della cultura, Seamus Heaney, nato nel 1939, sia molto meno importante di John Lennon e Paul McCartney, nati nel 1940 e nel 1942».

L’obiezione più semplice ed estemporanea è che così il patrimonio linguistico, e forse anche immaginativo, della collettività rischia di perdere quel grado di ricerca e di sperimentazione sulla parola che si riscontra nella scrittura poetica. Su questo insiste Andrea Cortellessa, professore di letteratura contemporanea all’Università Roma 3, in  “La fisica del senso” (Fazi, 2006) quando afferma che: «La scrittura in versi è, di questo microclima in perenne pericolo di esaurimento, sineddoche privilegiata: ancora più debole e appartata, irriducibilmente minore, la poesia di chi continua a crederci è un resto – di passione, competenza, generosità – al quale rinunciare sarebbe un delitto». E ancora: «Resto convinto che la scrittura in versi sia la più viva in circolazione da queste parti, oggi». Tornando sul tema a dieci anni di distanza dal suo saggio, Mazzoni allarga il discorso e suggerisce che la marginalità della poesia sia una sorta di avanguardia che progressivamente viene a interessare anche altri generi: “A me sembra che il pubblico vasto sappia sempre meno di ciò che succede veramente nella narrativa di ricerca contemporanea, nel cinema non commerciale, nell’arte o nella filosofia del nostro tempo. La solitudine del poeta anticipa altre solitudini intellettuali”.

È interessante rilevare che questa dinamica si concretizza in anni in cui si pubblica moltissima poesia, quanta probabilmente non se ne è mai pubblicata in precedenza. Infatti, se è vero che i grandi editori hanno nel complesso ridotto lo spazio per i poeti italiani contemporanei, c’è anche che oggi nel nostro paese viene stampato un numero assai elevato, e difficile da censire, di libri di poesia presso editori piccoli e a volte piccolissimi. E, va da sé, con i più diversi modi e livelli di scrittura. A questo si aggiungono le poesie pubblicate dai blog letterari, alcuni di qualità e apprezzati dalla comunità degli scrittori, sui siti personali e nei social network. In sintesi: mentre la poesia perde visibilità e prestigio, proliferano le pubblicazioni.

Il poeta Biagio Cepollaro sottolinea che «la facilità di pubblicare garantita da internet e dai nuovi media, da un lato rende più difficile distinguere tra le molte proposte, riconoscere la qualità, dall’altro fa perdere valore e consistenza alla parola stessa. Contano meno la precisione del significato o l’invenzione formale, prevale l’impatto globale che può arrivare dal flusso dei segnali. Da qui, ad esempio, l’affermarsi dello slam e di occasioni che banalizzano i contenuti, ma dove emerge lo spettacolo, la messa in scena. Inoltre, a partire dalla fine degli anni ’80 si è molto indebolito il contesto istituzionale, quel dialogo che, pur tra compromessi e contraddizioni, c’era tra università, editoria e giornali. Ma credo anche che chi vuole seguire un percorso di espressione lo possa fare con gli stessi esiti in ogni epoca. Il gesto artistico è pieno di sé, non chiede nulla, può fare a meno del pubblico. Se poi incontra il gradimento di dieci, mille o più persone è una cosa bella, ma non un fatto necessario, costitutivo di quel gesto».

Cesare Viviani sostiene che il mercato dei media abbia influito sull’attuale stato della cose: «Dopo gli anni ’60 – afferma il poeta – i giornali e la televisione hanno avuto uno sviluppo sempre più pervasivo. In seguito, con internet e la telefonia mobile il processo si è accentuato. In una società sempre più mediatica, il cui valore principale è quello della comunicazione, la poesia finisce per perdere spazio e rilevanza. Questo accade perchè la poesia è in contrasto con il sistema dominante e ha come riferimento proprio ciò che sfugge alla comunicazione, i limiti della comunicazione stessa. La scrittura poetica si pone altre questioni, lavora sulla bellezza del linguaggio, sulla trasmissione dell’esperienza».

Un ambiente culturale orientato dalla comunicazione e più in generale dalla chiarezza del messaggio, secondo Daniele Giglioli, professore di critica e letterature comparate all’Università di Bergamo, avrebbe favorito l’imporsi di forme narrative, con il consolidamento del romanzo nelle preferenze dei lettori e con la diffusione delle serie televisive: «Il fenomeno ha svantaggiato oltre modo la poesia italiana, il cui corpo centrale è petrarchesco, lirico e dove, a differenza di quanto avviene nella letteratura anglosassone, non sono numerosi, sebbene significativi, gli esempi di poesia narrativa. E poi c’è il problema della lingua poetica. Per un poeta italiano fare entrare in una poesia modi di usare la lingua vicini al parlato, senza dare l’impressione che si tratti di momenti ironici o straniati è molto più complesso. E questo per via della nostra eredità, così aulica e difficile da contaminare. Soltanto un grande poeta potrebbe riuscirci».

La signoria del romanzo, evidenzia Mauro Bersani, editor di poesia per Einaudi, negli ultimi decenni ha influenzato fortemente le pagine culturali dei quotidiani: «Sul Corriere della Sera degli anni ’60 e ’70 scrivevano Montale, Luzi, Giudici e Pasolini. Oggi, invece, ogni quotidiano ha un narratore come figura intellettuale di riferimento. Il romanzo è diventato la monocultura dei nostri anni e ha tolto spazio non soltanto ai poeti, ma anche ai drammaturghi, ai saggisti, ai critici e a qualsiasi altra forma letteraria. Tuttavia, per i poeti non avere più spazi di intervento pubblico può essere un vantaggio, un fattore di indipendenza, l’occasione per lavorare sulla scrittura senza compromessi».

È possibile che ci si trovi soltanto all’inizio di un passaggio epocale, di una svolta di cui al momento è difficile intuire la portata e di cui la percezione collettiva della poesia e degli altri generi letterari è soltanto un aspetto, una proiezione. Tornando indietro nel tempo, l’invenzione della stampa da parte di Johannes Gutenberg nel ’400 fu l’origine di trasformazioni sostanziali, rese più facile e democratica la diffusione della cultura, favorì l’affermarsi della riforma protestante e, nel corso dei secoli, alimentò rivoluzioni della conoscenza e tra le classi sociali. Ma è anche vero che l’uso dei caratteri mobili determinò una cesura con la fase precedente, quella dei manoscritti, e in qualche misura con le modalità di accesso allo studio, con la ricchezza e la profondità dei saperi che quella tradizione millenaria portava con sé. Forse abbiamo di fronte soltanto i primi esiti dello scossone che internet e i media digitali, tra luci e opacità inevitabili, hanno dato alla produzione e alla circolazione della conoscenza, alle dinamiche della politica, della società e dell’identità individuale. Probabilmente sta nella logica delle cose che, quando si fanno più inclusivi e aperti i modi per acquisire le informazioni, ci siano modifiche e fasi di assestamento nella produzione dei contenuti. E va messo in conto che la mutazione interessi gli strumenti, e a volte anche i criteri, usati per classificare le opere.

Un  capitolo a parte è rappresentato dalla funzione della scuola: quanto e in che modo i poeti attivi negli ultimi decenni vengono letti e proposti nelle aule al di là degli aggiornamenti dei programmi di studio? Paolo Zublena, professore di linguistica italiana all’Università di Milano Bicocca, invita a riflettere sul ruolo degli atenei e sul peso che possono avere avuto i contributi critici relativi alla caduta delle distinzioni tra i generi, maturati a partire dal dopoguerra: «Molti dicono che sia stata la poesia ad allontanarsi dai lettori, dalla rappresentazione del quotidiano e a preferire forme tendenti all’illeggibilità. Ma questa ipotesi viene meno se si considera che sono poco conosciuti dai più anche poeti contemporanei la cui scrittura non è per nulla oscura o difficile. La posizione minoritaria in cui si trova oggi la poesia non ha una ragione univoca. È probabile che la crisi dei generi letterari, occorsa in particolare negli anni ’60, e mai davvero superata dal ritorno post moderno alla letteratura di genere, abbia penalizzato la diffusione e la visibilità della poesia, che nella classificazione tradizionale godeva del prestigio maggiore, indebolendone la specificità. Forse da un certo momento in poi nel bagaglio culturale del buon professionista non è stato più importante conoscere la poesia contemporanea, come pure del resto avere una cognizione non superficiale della storia. E conviene anche dire che tra gli insegnamenti universitari la poesia del secondo ’900 non ha molto spazio, a vantaggio della narrativa e della poesia del primo ’900».

Il tema si sposa male con la fretta, con il desiderio di analisi risolutive, sia quando si pensa alla scrittura poetica nella storia sia quando si considera il percorso di uno scrittore. Secondo la poetessa Maria Grazia Calandrone, «manca spesso la fase preliminare dell’apprendistato e della lenta emersione della propria parola. L’autorevolezza è data dal pensiero che si è sviluppato intorno al proprio stesso fare. La poesia lavora sui tempi lunghi, non si può misurare né sulle vendite né sulle citazioni dei versi. Le eccellenze poetiche sono rare, come sempre, ma esistono e, a mio parere, sono conosciute e riconosciute». E non si può escludere, come sottolinea Giglioli, che le forme della poesia alla fine risultino compatibili con i modi sociali e culturali verso cui ci muoviamo: «È curioso il fatto che in un’epoca veloce, spesso frenetica come la nostra molti leggano romanzi lunghi centinaia di pagine, quando invece proprio la poesia potrebbe ritagliarsi spazi importanti, catalizzare momenti brevi e intensi di attenzione. Ma forse è soltanto questione di tempo, le grandi trasformazioni sono lente».

 

In copertina, Palazzo della Civiltà Italiana (Roma Eur) – foto di Emiliano Felicissimo tratta da Flickr

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