Letteratura

Perché gli italiani non leggono?

24 Aprile 2015

Chiusasi la giornata mondiale del libro riapriamo la pratica: perché noi italiani non leggiamo? È inutile consultare le statistiche: siamo lettori deboli, debolissimi. Alcune domande: sconosciamo  forse o evitiamo di proposito la “piccola morte” della lettura e le preferiamo quell’altra, quella dell’orgasmo, della vita vissuta, della vita delle sensazioni, della vita trafficata, della vita vera? «La vita o la vivi o la scrivi»? E a che serve caro Pirandello se poi nessuno la legge? Popolo anarchico e individualista, adorato da Stendhal per il suo vitalismo, per la sua energia, per il suo brio, restiamo inchiodati alla sentenza di Orson Welles ne “La ricotta” (1962) di Pier Paolo Pasolini: “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa”? (vedilo su Youtube)

Se è così, quale la ragione? Innanzi tutto ci è mancata una tradizione.  È  una questione molto semplice. L’abitudine alla lettura nei paesi dell’Europa fredda venne incoraggiata a partire dal XVI secolo dall’indicazione e dalla pratica protestanti dell’accesso diretto ai testi sacri. Così in Inghilterra i bambini imparavano a leggere sul “Prayer Book”, che era in tutte le case, e in Germania sulla Bibbia già tradotta da Lutero in tedesco e uscita nel 1534. Su questo evento di massima importanza culturale per l’intero popolo tedesco richiama la nostra attenzione un passo di Hegel:

Ora, il fatto che la Bibbia stessa sia diventata la base della chiesa cristiana, è della massima importanza. Ognuno deve ora trarne ammaestramento per suo conto, ognuno può in base ad essa dirigere la propria coscienza. Qui è l’enorme mutazione di principio: tutta la tradizione e l’edificio della chiesa è sovvertito. La traduzione che Lutero ha fatto della Bibbia, è stata di valore incommensurabile per il popolo tedesco. Questo ebbe con essa un libro popolare, di cui nessuna nazione del mondo cattolico ha l’eguale; essi hanno, sì, una gran quantità di libri di preghiere, ma non un libro fondamentale per l’educazione del popolo. […] Inoltre, perché vi sia un libro per il popolo, è necessario anzitutto che il popolo sappia leggere, il che è raro nei paesi cattolici. (G.F.W.Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, La Nuova Italia, Firenze 1975, p. 153).

In Italia benché la prima Bibbia fosse stata tradotta già nel 1471 (Malermi) e da Brucioli (1532), e in seguito da Diodati questi ultimi dei protestanti, non venne mai adottata  nella lingua dei parlanti – benché non esistesse un formale divieto   dal cattolicesimo –  se non nel 1963! con il concilio Vaticano II e con traduzioni controllatissime che si rinnovano piuttosto spesso. L’ultima versione CEI è del 2008. Fino al 1963 il prete diceva la messa voltato di spalle e in latino (da dove le Donnabisodia su cui fantasticava il popolo– dona nobis hodie, ecc), una lingua che nessun fedele del popolo comprendeva. Venendo così scoraggiata la lettura nel Paese che dopotutto aveva dato vita all’Umanesimo e alla filologia, non restò come forma privilegiata di comunicazione che l’oralità, la parola e il canto. E con quella potente oralità ci siamo dati al mondo fino a oggi:esprimendoci con il melodramma e le canzonette, ma con riverberi a cascata: impossibile, quando ci scappa la voglia, leggere sui treni,  quei luoghi che hanno ispirato lungo un secolo uno speciale tipo di letteratura, quella di “stazione” . La gente in Italia nei treni parla dei fatti propri ad alta voce nei telefonini come fossero megafoni. Restiamo il Paese con il più alto numero di telefonini pro capite al mondo.  Altro riflesso: scegliendo e privilegiando il canto come forma di espressione, è normale quando muore un cantante che ci sia il lutto nazionale. La  cultura basica e quella midcult si fonda perlopiù sui  versi smozzicati di De Andrè o Gaber. È la specificità della nostra cultura, in senso antropologico, nel senso datole da Ruth Benedict. Siamo fatti così. È un bene? È un male? È l’Italia!

Un’intellettuale italiana favolosa ma misconosciuta, come avviene spesso purtroppo in Italia,  Gigliola Fragnito, s’è industriata a spiegarci questo fatto storico della  proibizione della lettura dei testi sacri nella lingua dei parlanti.  Ne  La bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della scrittura” (1471 – 1605), Bologna, Il Mulino 1997;  in Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, Bologna, Il mulino 2005. Nel recentissimo (2011) volume : Cinquecento italiano. Religione, cultura e potere dal Rinascimento alla Controriforma la Fragnito scrive a chiare lettere che il divieto (del volgare) ebbe «ripercussioni che travalicarono i confini strettamente religiosi, sulle quali peraltro non è stata attirata l’attenzione e che non poterono non  lasciare tracce profonde sull’apprendimento della lingua italiana» e «rimane il dato incontrovertibile del superiore tasso di alfabetizzazione dell’Europa della Riforma rispetto all’Europa cattolica» (passim, cito dalla mia edizione ebook). Insomma nella “lunga durata” storica (espressione dello storico Fernand Braudel), i fenomeni collettivi non nascono a caso come polle d’acqua nelle risorgive della pianura padana, ma hanno una eziologia ben precisa. Questa è una.

Una seconda è quella di aver mancato un’altra stagione storica della lettura. Quella del romanzo.  Abbiamo mancato il romanzo del Settecento per esempio, il secolo in cui nasce la lettura di massa in Inghilterra, Francia, Germania proprio grazie al romanzo. Ho condotto, da dilettante, degli studi sull’argomento (molti anni fa quando lavoravo vicino alla Biblioteca Ambrosiana di Milano): il nostro primo romanzo nazionale e popolare è del 1827!!!!: I promessi sposi di Alessandro Manzoni, poi occorrerà aspettare i Guerrazzi, i Grossi ecc e il secondo Ottocento con Rovani, Gualdo, Nievo e i siciliani Verga, Capuana, De Roberto. Nel ‘700 abbiamo avuto dei letterati  sconosciuti ai programmi scolastici Pietro Chiari e Antonio Piazza che pubblicarono moltissimi romanzi con un certo successo, mentre i nostri intellettuali scrivevano algidi poemetti, carmi, inni sacri. Il giorno di Parini avrebbe potuto essere il primo romanzo  di formazione italiano (il nostro Barry Lyndon o Tom Jones), ma il petrarchismo endemico e la tradizione lirica  impedì di accogliere la “prosa del mondo” (Hegel) e la sua riproposizione nella prosa scritta del romanzo.  S’era formata la domanda ma non l’offerta. Si ricorse all’importazione allora e si tradussero (alla carlona)  i romanzi stranieri da Le Sage a Prevost da Fielding a Swift , soprattutto a Venezia e per tutto il ‘700.  (Traggo le notizie da uno studio di Giambattista  Marchesi   Studi e ricerche intorno ai nostri romanzieri e romanzi del Settecento, coll’aggiunta di una bibliografia dei romanzi editi in Italia in quel secolo, 1903, che lessi all’Ambrosiana e che adesso è rintracciabile in rete nel benemerito Arhive.org)

E adesso? Restiamo ancora in fondo alle classifiche mondiali e non credo che ne risaliremo. Siamo fatti così.

Potrebbero esserci altre ragioni? Forse ci siamo “mangiati la foglia”? Abbiamo capito da subito gli effetti distorcenti del “vizio impunito” della lettura? Quello che faceva prendere la tangente a Don Chisciotte e a Emma Bovary? e ci siamo cautelati non leggendo rigorosamente? Meglio schizofrenici (i libri e la vita che contengono da una parte e noi e la nostra vita da un’altra) che paranoici? Gli italiani forse non se la sono bevuta?

Sugli effetti distorcenti della lettura hanno scritto i sommi: da Dante (“Galeotto fu il libro e chi lo scrisse”) a Cervantes (è leggendo romanzi d’avventura che il divino Hidalgo parte per la tangente e Giulio Ferroni asserisce che stesse leggendo lo stesso libro di Paolo&Francesca) a Flaubert che riassume su Emma Bovary (la cugina “scema” di don Chisciotte) i disturbi della personalità procurati dalla lettura. In Bouvard e Pécuchet Flaubert ritorna con il suo spirito acre nel sottolineare beffardamente la follia instillata negli spiriti deboli da quel “vizio impunito”, come lo chiamava Valery Larbaud, che è la lettura. Quando lessi questo libro rimasi sconvolto: giovanissimo mi accostavo fiducioso alla biblioteca del mondo, e Flaubert mi indicava invece, in quella sorta di “Enciclopedia” rovesciata che è il suo libro, tutte le follie. E tuttavia è proprio dalla mediatezza (se così si può dire) della lettura che incontriamo la nostra immediatezza; siamo autentici quando siamo artificiali, ci conosciamo “riconoscendoci” in quella immagine riflessa che ci restituisce la pagina del libro, siamo in noi quando con la lettura siamo fuori di noi. Accade addirittura che l’homo fictus che è il lettore suggerisce ragguagli preziosi sull’esistenza all’homo naturalis, all’io vivente. E tuttavia torna la domanda: occorre prendere il rischio della lettura? Trovarsi a vagare per la Mancha alla ricerca della mitica Dulcinea del Toboso? Innamorarsi per induzione come Paolo e Francesca? “Bersi” una intera biblioteca, come Bouvard & Pécuchet, senza capire una cippa sia della vita che dei libri? Lo sapremo solo alla fine del romanzo della nostra vita. Non prima, non occorre affrettare le  conclusioni. Quando avremo girato l’ultima pagina lo sapremo. Ma gli italiani, furbissimi, hanno scelto di non aprire nemmeno la prima.

Ma ancora, chissà, forse gli italiani sono uomini pratici e si ispirano a  Giulio Cesare  quello  della pièce omonima  di Shakespeare che,  in quanto  tipico uomo di azione,  dà mostra di disprezzo all’indirizzo del  lettore  impunito  quando si lascia scappare verso un congiurato queste parole: «Troppo magro e segaligno è Cassio e legge troppo: tipi così sono pericolosi» . (I, sc.II)

Infine, noi happy few che non abbiamo fatto altro nella vita possiamo solo rammemorare a chi vuol stare a sentirci che la lettura è un’orgia perpetua, come ci ricordava Flaubert : «Il solo modo di sopportare l’esistenza, è di stordirsi nella letteratura come in un’orgia perpetua. Il vino dell’Arte causa una lunga ubriacatura ed è inesauribile. E’ pensare a sé che rende infelici»

O ancora  con il nostro Gustave (vedi lettera a  Mademoiselle de Chantepie) tirare una delle più belle proposizioni sulla lettura. Flaubert invitava la donna a leggere Montaigne, ma aggiungeva: «Leggetelo lentamente, con calma ! Vi calmerà […] Ma non leggete, come leggono i bambini, per divertirvi, né come leggono gli ambiziosi, per istruirvi. No. Leggete per vivere ! »

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Vedi anche su “Gli Stati Generali”:

“Il dolore di essere italiani”, di Giulio Savelli

L’ossessione degli italiani per la “bella figura”

 Sugli italiani: Leopardi il primo, la Ginzburg icastica e perfetta, Flaiano stufo

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