Letteratura

Nomina nuda tenemus. Il nome della rosa di Umberto Eco

20 Febbraio 2016

Dopo i saggi Opera aperta e La struttura assente, capisaldi della strumentazione critica dello strutturalismo italiano, Umberto Eco tenta sorprendentemente nel 1980 con “Il nome della rosa” il romanzo, genere libero  per eccellenza, e ne riporta un successo planetario in termini di vendite e di meritata celebrità. Il fine semiologo abborda il genere nelle sue forme più popolari e popolaresche, il giallo, nelle forme ossia iperstrutturate dell’inchiesta commissariale e adottando la tecnica narrativa consegnata dalla tradizione (il manoscritto ritrovato e rifatto, topos manzoniano e ancor prima cervantesiano), non rinunciando a tutte le malizie del romanzo-feuilleton, di cui peraltro a più riprese s’era dichiarato entusiasta ed attento esegeta. (Bastava leggere le Bustine sull’Espresso di quegli anni: ricordo l’effetto cric, rilevato nei romanzi di Dumas, ossia l’evidenziazione di un’economia dei mezzi narrativi, al fine di raggiungere col minimo sforzo il massimo rendimento).

Tutto ciò, però, si poneva come un clamoroso “contrordine compagni” rispetto agli orfismi estenuati dell’”opera aperta”, perché qui ci troviamo, invero, davanti ad un’opera “chiusa” come un vecchio baule della nonna, ossia fortemente strutturata e “pensata” a freddo e con forti debiti verso la tradizione narrativa. L’incipit è dei più canaglia, da Snoopy: «Era una bella mattina di fine novembre», pericolosamente simile a «La marchesa uscì alle cinque» – che faceva dire a Paul Valéry di odiare il genere romanzo perché fatalmente si sarebbe imbattuto in frasi come questa. Di più: tutti gli snodi narrativi, compreso l’epilogo, sono degni del miglior romanzo ferroviario, nel senso più alto della locuzione, ossia di una scaltra e intelligente uncinazione del lettore. Ma Il nome della rosa si giova anche di un impianto colto e professorale che ce lo rende tuttavia godibile ad ogni pagina, e, come I promessi sposi, organizza la propria materia secondo il principio del “multilivello”: da un lato la storia con il plot a ‘cavaturaccioli’ per i lettori più inconsapevoli, e dall’altro il prulirilinguismo e la pluridiscorsività (e le eresie e il latinorum) per i palati più raffinati, soddisfacendo – come viene fatto qui eccellentemente – la duplice istanza di non rinunciare né alla propria anima né alla grande massa dei lettori, e di catturarne pertanto il maggior numero possibile, dal colto pubblico all’inclita guarnigione – come si diceva una volta – e non soltanto gli happy few. Preoccupazione estetica non scontata, invero, ove si considera che “narratori” come Arbasino – tanto per fare il nome di uno scrittore della stessa generazione di Eco e che partiva da programmi estetici giovanili analoghi-, opterà per la scrittura haute coutûre contro il prêt-à-porter, orientandosi verso l’exclusive e somministrando quintessenziali manicaretti letterari, ignorando deliberatamente il fast food di massa.

È un romanzo artificiale: si vedono, anzi si intravvedono, le “schede” degli appunti: la medievistica fortemente praticata e amata (in particolare ci sembrò sottinteso, in qualche punto, il libro di H.Grundmann, Movimenti religiosi nel medioevo, Il Mulino 1980 che ci capitò di leggere in quegli anni, quasi in contemporanea); i dibattiti recenti (della fine degli anni ’70 cioè) sulla “crisi della ragione” e sui paradigmi indiziari; il richiamo implicito all’abduzione di Peirce (che si affianca ai tradizionali procedimenti logici dell’ induzione e della deduzione); l’accenno esplicito a Jorge Luis Borges e alla sua Biblioteca di Babele, che era nell’aria in quella fine di decennio. Insomma un romanzo iperculto, fictus, in cui la componente ludica e combinatoria prevale su qualsiasi intenzione seria, su qualsiasi disvelamento di rovello interiore o di comunicazione di proprie “idee sul mondo” se non nelle forme leggere, e per Eco molto “sapute”, del genere romanzesco che ambisce al best seller di qualità (secondo la formula di Giancarlo Ferretti).

Ma se gli siamo grati di ciò, di averci ossia risparmiato la sua visione del mondo, tuttavia occorre rimarcare che la narrativa alta e la letteratura d’eccezione si distaccano da ogni altra forma di intrattenimento letterario, anche quello più nobile, solo se (e quando) non rinunciano a dirci qualcosa di nuovo o di vero su tutti noi, a partire dalla esperienza individuale dell’autore; quando impongono un proprio sguardo sul mondo (che diventa così «una sezione di realtà attraversata da un temperamento» per riprendere la nota formula di Zola), quando cioè insieme alle vicende di Natasha e Julien Sorel, il lettore scorge nella fabula lo sguardo di Tolstoj e Stendhal e la loro intuizione del mondo, ed è quella intuizione poi che rende Tolstoj Tolstoj e Stendhal Stendhal.
Qual è qui lo sguardo di Eco? È esattamente quello di Dumas nei Tre moschettieri: non c’è. Quando la struttura è forte, è l’autore ad essere assente. Nei “gialli” – e nei plot di risoluzione più che in quelli di rivelazione (S. Chatman) è proprio l’autore il primo morto.

Se è nato da artificio, Il nome della rosa, lo è come i figli della provetta che pure girano in mezzo a noi indistinguibili da quelli che sono frutto dell’amore fisico. È un romanzo che rompe con lo sperimentalismo della neo-avanguardia per mano di un suo figlio, che sconfessa i suoi diktat e le sue equazioni (piacevole=consolatorio; leggibile=canaille; discorso indiretto libero=vecchie zie e gattopardi), che si piega, finalmente, ai valori della leggibilità nelle forme dell’intrattenimento alto, che assegna alla narrazione un valore in sé (rispettandone dunque gli oneri e i divieti e avendo cura di tutte le regole della composizione e dei vincoli redazionali tipici delle opere chiuse, del romanzo-romanzo) e che fa riprendere alla narrativa italiana, dopo i terrorismi della neo-avanguardia e il disinteresse per la narrativa tout-court della generazione del ’68, irretita dal saggismo e da altre preoccupazioni intellettuali, la pratica della narrativa affabulatoria in particolare, e, in generale, unitamente ad altre opere che uscivano in quegli anni (Seminario sulla gioventù di Busi e Altri libertini di Tondelli) una ripresa di fiducia nella letteratura come mezzo idoneo e privilegiato di consegna dei propri tormenti, turbamenti e visioni del mondo alla generazione successiva. La generazione del ’68, invece, alla letteratura “mediata” dai generi preferì, come quella del 1789, quella “immediata” della rappresentazione di sé in piazza – e successivamente nei processi. Viveva, quella generazione, in una forte e appagante vita di relazione, nella pienezza e nell’effervescenza delle occasioni mondane e sociali; non necessitò ad essa invocare, perciò, il soccorso della narcosi narrativa, che come ogni surrogato di vita è propria dei tempi di restaurazione così pure di ogni esistenza che denunci un manque de vie. E sappiamo ormai da tempo che se si vive non si scrive.

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Un ricordo personale di Umberto Eco.=== Un convegno del 1983. Ero tra il pubblico (quattro gatti anche allora) nella sala del “Grechetto” della biblioteca Sormani di Milano alla presentazione del libro appena uscito di Gian Carlo Ferretti “Il best seller di qualità” (Laterza 1983). Al banco dei conferenzieri lo stesso Ferretti, Umberto Eco e si restò in attesa, invano, di Erich Linder, il noto agente editoriale. Si seppe in seguito che era venuto a mancare proprio la notte prima, il 22 marzo. Il dibattito fu perciò a due, serratissimo e senza moderatore, se ricordo bene. Ferretti, peraltro un ottimo “intellettuale organico” che leggevo avidamente su “Rinascita” e in genere sulla stampa comunista (detto tra parentesi a lui devo uno dei saggi più belli sull’amato Vitaliano Brancati, “L’infelicità della ragione nella vita e nell’opera di Vitaliano Brancati, 1998), Ferretti, dicevo, con accenti critici individuava in due autori soprattutto (Italo Calvino ed Umberto Eco) i campioni di una tendenza che a lui sembrava indicativa dei disegni “ordinatori” e “regolatori” del sistema (così si diceva una volta in maniera allusiva e negativa, senza necessità di ulteriore specificazione) di conciliazione ossia tra scrittura e mercato e per la quale egli ovviamente non faceva salti di gioia. A Ferretti sembravano, Calvino ed Eco, i nuovi “sauri” (sic!) della industria culturale, i quali a differenza dei vecchi (Cassola, Chiara) che subivano il mercato per accettazione o necessità di ruolo, impostavano con il mercato stesso “un rapporto esplicito e fondato su una strategia agguerrita, su una sottile teorizzazione e su un consapevole progetto letterario”, a sostegno di una industria editoriale che tende a risolvere la ‘quantità’ nella ‘qualità’, quest’ultima ridotta a una categoria stessa del mercato. A farla breve l’accusa di Ferretti, oggi totalmente incomprensibile, ma in quegli anni destava molta attenzione e rispetto, era quella di una sottile, elegante, subordinazione dell’intelligenza creatrice (di Eco e Calvino) alle ragioni del mercato e una conseguente acquiescenza al “controllo ideologico” del sistema tout court.
Oggi, non so quanto possa essere compreso un discorso del genere in tutte le sue valenze sottaciute (ma in quegli anni totalmente decrittate dai più che consideravano il “mercato” di per sé una negatività incombente sulla libertà degli spiriti), basta solo ricordare che l’Unità era l’unico quotidiano che NON riportava le quotazioni del listino di borsa, a comprova della sua ovvia estraneità/ostilità al sistema mercantile-capitalistico sia nella finanza tanto più nelle regioni dello spirito.
Adesso devo riportare la reazione di Eco. Che fu ricca e argomentata ma di cui ricordo ahimè ben poco. Salvo una scenetta plateale. Eco trasse fuori da una sua cartelletta un ritaglio di stampa, che lesse ad alta voce. Era una recensione a lui favorevolissima. E in chiusura svelò con senso della scena teatrale il nome del recensore. Chi era? Ma Gian Carlo Ferretti stesso: era una recensione apparsa su “Rinascita” qualche anno prima, all’uscita de “Il nome della rosa”, nel 1980. – “Cosa è successo nel frattempo?”, chiese retoricamente al pubblico Umberto Eco. E si rispose da solo: – “Semplice, il libro (“Il nome della rosa”) si è macchiato di un reato gravissimo agli occhi di certi critici militanti: ha sfondato il muro del suono delle centomila copie vendute. Reato inqualificabile e imperdonabile.”

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