Letteratura

Massimo Onofri, “Passaggio in Sicilia”

30 Giugno 2016

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Massimo Onofri compie con questo  libro appena uscito il suo Sicilian carousel come Lawrence Durrell negli anni ’70. E come lo scrittore inglese sembra seguire le tracce di una particolare “islemania”: dopo la Sardegna ecco la Sicilia gastronomica, turistica, letteraria. Ma è possibile il turismo sopra il dolore, in cui a me sembra versare il natio suolo? Il turista lo sa o no che il pittoresco altro non è che il quotidiano degli altri? Certo che Onofri lo sa. Conosce meglio di chiunque altro, da etrusco intelligente e informatissimo qual è, tutti i rischi che si corrono nel maneggiare quell’articolo di lusso che è la letteratura in una terra contorta e in preda a un evidente dolore sociale come la Sicilia. Ma soprattutto quella  terra  ove la sovrabbondanza dei beni letterari è venuta a concorrere e a rafforzare  l’ideologia sicilianista che nutre  l’eccezionalismo isolano, ossia la magnificazione gattopardesca dei suoi innumerevoli ritardi  cui la sovrabbondanza dei beni letterari, pur innestandosi nella generale arretratezza socio-culturale, assicura una sorta di addizionale prestigio  regressivo. È accaduto insomma quel che si è verificato in Russia o in Sudamerica: ristagno dello sviluppo e straordinaria efflorescenza delle lettere. Manca il pane ma abbondano le brioches letterarie.

In più, il progresso senza sviluppo, ossia l’avanzamento di una sorta di modernizzazione indotta – tutta la vita collettiva a prima vista sembra svolgersi secondo i parametri apparentemente occidentali, dai megacentri commerciali alla motorizzazione di massa – non   corrispondente tuttavia a un eguale sviluppo endogeno delle forze produttive, sfocia nel contrasto fra forme materiali dell’esistenza e auto- iper- coscienza letteraria, dando luogo  a quella che Onofri, in un altro libro, ha definito splendidamente  come “modernità infelice”.

Onofri è un fine letterato che nel mio pantheon privato dei critici affianco volentieri a Spinazzola, Madrignani, Luperini. Non esibisce il regard éloigné degli antropologi o quello degli svagati viaggiatori in cerca di facili emozioni  ma lo sguardo ficcante del letterato splendidamente secchione che fruga nelle pieghe del reale sapendo cosa cercare. Grazie alla letteratura o per dirla con le sue parole con la forza  “di chi vive di passioni vicarie e cartacee” riesce a cogliere i più annidati  noumeni dietro i fenomeni. Splendido, per fare un solo esempio,  il suo rifiuto del tour nelle zone di mafia: in sostanza fa capire  con garbo agli amici, senza tirarsela troppo,  di sapere tutto perché tutto ha “letto”, e rammenta loro alcune pagine ancora palpitanti di “La Sicilia nel 1876” di Franchetti e Sonnino, oltre a un monsone di riflessioni sulla mafia con giudizi rapidi e incidentali che sono delle sciabolate come a proposito del registro comico di Roberta Torre e di Pif :  «la mafia attraverso il comico entra nell’irrealtà, per essere assolta da una risata». Onofri in questa circostanza si  comporta insomma come il dandy d’eccezione  Des Esseintes del romanzo À rebours di Huysmans, il quale trovandosi a Calais in procinto di partire per l’Inghilterra, ingannando il tempo nell’attesa, si imbatte in una bancarella con la mappa dell’Inghilterra. Ha un’illuminazione: “Perché partire?” Aveva infatti l’Inghilterra sotto mano. Gli bastava. Il miglior viaggio è quello mentale. Quale gita nel regno della mafia, perciò,  vuoi fare se hai già la mappa? E poi troppo grosso è il rischio di cadere in figure da allocchi come lo Chevalley del Gattopardo, troppo facilmente impressionato da rievocazioni di delitti efferati.

Altra annotazione: apprezzabili le riserve civili e le larvate critiche verso il sindaco di Palermo  che accoglie con  enfasi la salma di un condannato a morte americano. Sicuramente  « un gesto di alto valore simbolico, di grande significato morale, ma che è anche   la spia di una idea della politica come mobilitazione permanente, d’una logica amministrativa che pare, comunque, quella dell’emergenza». A me un gesto come questo, che non mancò di colpirmi a suo tempo, destò questa riflessione:   più i costumi sono corrotti più i canti sono lirici e celestiali, più le pratiche sono molli più i principi inderogabili: ma un’eguale attenzione per l’Arredo Urbano e per la Nettezza Urbana, elevati a Sacri Principi, no, caro Sinnacu? Segnalo più avanti, in tema di risentimento del buon senso, in questo caso contro le follie dell’arte contemporanea,  le parole coraggiose e  taglienti su  Gibellina e la morte violenta dell’uomo che la inventò, Ludovico Corrao.

Onofri svela in alcuni punti tuttavia, rispetto ai saggi accademici, il suo lato leggero di dandy raffinato con punte melanconiche di letterato sazio e forse appagato dopo un trentennio di duro lavoro. Traspare qua e là, in mezzo all’allegra brigata con cui ha intrapreso il tour siciliano, il non più giovane accademico che si può concedere di lanciare sguardi concupiscenti sulle groppe delle allieve  di cui ama circondarsi o di rimembrarle nel ricordo,  nel tentativo di fondare un suo personale e consapevole stilnovismo patologico (peraltro se avete la fortuna di seguirlo su Facebook vi sorprenderà con la sua conoscenza dettagliatissima della canzone-canzone italiana, quella più pop e canaglia tipo “Giardino dei semplici”, di cui è sornione, artefatto, ed esaltato cultore e dove il suo stilnovismo è davvero seppur simpaticamente patologico).

In altri punti  Onofri si lancia in proiezioni da spericolato esteta, senza paracadute: uno stucco del Serpotta nella chiesa di Santa Cita comparato alla sonata “alla turca” di Mozart ci può stare se ben condotto come egli sa fare, anche se rischiosamente pencolante sul ciglio di un  burrone di una prosa ornata e  sgarbizzata, cioè il peggio secondo i miei parametri estetici. Ed è proprio  su questa scia che non riesco a seguirlo nella magnificazione di Sgarbi come sindaco dada di Salemi, proprio in una terra che avrebbe bisogno di politiche ragionate e di duro lavoro amministrativo e non di alzate di ingegno tocca e fuggi, anche perché di follie politiche ben più pittoresche di quelle del critico d’arte è morta o sta morendo l’isola.

La Sicilia è tanto addicted di letteratura da poter supportare un baedeker gigante come questo sulle cassate, i cannoli, le caponate, come anche sui paesini inerpicati sulle Madonie e gli angoli più nascosti delle cattedrali barocche fornendo materiale a iosa per i riferimenti ai testi letterari più noti o secondari, che Onofri peraltro governa  benissimo. Però appena pagato il tributo al turista in cerca di emozioni stendhaliane o al lettore più gourmet (e quanto a me se non lo avesse pagato non avrei per nulla protestato, detesto la gastronomia paraninfa ed enfatica, perché come il bel paesaggio è auto assolutoria, ed io pagherei una prefica perché mi parlasse male della Sicilia com’è) eccolo fiondarsi sulla scrittura, sulle pagine di Fiore, Borgese, Sciascia, Bufalino, Perriera, Alajmo, Di Grado, Nigro e tutto un nugolo di scrittori e critici siciliani noti e meno noti. Sono annotazioni critiche acute e informatissime le sue, la maggior parte godibilissime,  solo alcune meno fiammeggianti come quelle etnee: conoscendo personalmente i campioni della vita letteraria catanese  capisco l’atterraggio morbido della pagina onofriana.

Ma in genere si salta di gioia nel leggere l’Onofri critico,  e a fine lettura vien voglia di portare l’immaginaria coppola al petto e,  un sorriso a mezzabocca,  ringraziarlo per le acquisizioni letterarie e le illuminazioni critiche con un  “voscenza benedica, baciamo le mani, ah”.

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