Letteratura

Italo Calvino? Non mi piace

25 Settembre 2015

Non tutto Calvino non mi piace. C’è il Calvino favolista, demopsicologo, che appronta una geniale e memorabile raccolta delle fiabe italiane che va tenuto in considerazione con ogni riguardo. Poi c’è un Calvino saggista che stimo e che quando posso tengo d’occhio anche per orientare il mio gusto di lettore medio: è quello che si presenta nei saggi “Una pietra sopra” e soprattutto in “Perché leggere i classici”, un po’ meno, spiegherò perché,  in  “Lezioni americane”. – Breve digressione: anche in Pasolini ammiro non il poeta, il cineasta, il polemista, ma immensamente il lettore critico, soprattutto quello di “Descrizioni di descrizioni” e di “Passione e ideologia”. Penso sempre che in un altro Paese più attento  a remunerare i veri meriti e talenti di un intellettuale ma soprattutto dotato di istituzioni culturali robuste e gratificanti come per esempio il Collège de France Oltralpe, quello di critico sarebbe stato il suo vero mestiere che lo avrebbe distratto  dai “violon d’Ingres”, ovvero le false vocazioni. – Infine c’è un Calvino narratore che riesco a sopportare fino a “Marcovaldo”, “Il barone rampante” e “Il cavaliere inesistente”, ossia il primissimo. Poi, a partire da “Le città invisibili” e successive uscite il mio distacco dalla sua narrativa si è accentuato fino a una disaffezione raggelata  toccando forme di insofferenza soprattutto  dai tardi anni Ottanta, quando, come scrive Alfonso Berardinelli

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«è diventato (…) oggetto di un culto non di rado esclusivo e fuorviante. In lui molti scrittori e critici che hanno cominciato a pubblicare negli anni Ottanta hanno visto non tanto uno scrittore fra gli altri (uno scrittore particolarmente caratterizzato da alcune idiosincrasie: diffidenza per il romanzo, edificante moralismo umoristico, schematizzazione dei personaggi e delle situazioni ecc.) quanto invece lo scrittore  par excellence, l’incarnazione più perfetta e confortante dell’idea stessa di letteratura» (“La letteratura di fine millennio. Stili di pensiero e tendenze culturali” in “Storia della letteratura italiana” a cura di Cecchi-Sapegno, Garzanti, che leggo nell’edizione del “Corriere della sera”, 2005, vol. 20, p.41).

Quanto a me, c’erano delle  ragioni che mi distaccavano fino all’ostilità da Calvino. Ma non mi erano molto chiare, ossia non ero in grado di portarle dal livello di fastidio epidermico, dalla dissonanza meramente estetica, di gusto, di piacere di lettore, a quello della coscienza critica; operazione questa che non deve riguardare solo i critici accademici, ma anche il lettore “ingenuo e sentimentale” come me che  vuole indirizzare, e se ne ha la vanità, perfezionare il proprio gusto. Tanto più che Calvino era diventato davvero un’autorità indiscussa e un faro per molti letterati, e negli incontri occasionali tra lettori la lode era d’obbligo. Mi sono sempre chiesto le ragioni sia del largo consenso che godeva come della mia indifferenza. E in questi giorni che si ricorda il trentennale della sua morte ho ripreso in mano il dossier.

C’erano state, in verità, contro di lui alla fine degli anni ’90 le invettive (evidenziate da Berardinelli) di Antonio Moresco che definì  Calvino «domatore di cavalli a dondolo concettuali, nato nel ventre stesso dell’editoria». Moresco aggiungeva stizzito:

perché questa perenne celebrazione di Calvino, che non accenna a diminuire, più che per ogni altro scrittore, anche più grande di lui, del Novecento? Questa continua canonizzazione di questo autore  così funzionale e terminale? Le sue smorfie, le sue letterine, le sue trovatine… Perché tanto aggrapparsi a Calvino e cincischiarlo da tutte le parti, una simile imposizione a modello di questo scrittore liofilizzato?. (A. Moresco, “Il vulcano. Scritti critici e visionari”. Torino, Bollati Boringhieri, 1999. p. 20).

Berardinelli, pur tenendola d’occhio, circostanzia  la  «perfida, illuminante faziosità» di Moresco  e avanza alcune risposte molto convincenti. La prima sarebbe quella di avere Calvino riunificato, prima di Eco, il colto pubblico e l’inclita guarnigione, sia i lettori «ingenui» sia «i più agguerriti analisti universitari della “cosa letteraria”». La seconda  è quella di «aver sdrammatizzato la situazione della letteratura moderna, con il suo carico di conflitti, aggressività, angoscia, provocazioni morali e politiche». La sua idea di una letteratura “ per bambini e per ragazzi”

è la grande via d’uscita dalla modernità verso la postmodernità che permette a Calvino di far regredire il linguaggio letterario alla semplicità e alla semplificazione, magari per poi aggiungervi complessità, giochi intellettuali e intriganti sofismi. Bambino o adolescente saggio e astuto, Calvino usa la regressione alla fiaba e al racconto d’avventure e usa personaggi di adolescenti e di bambini per spiazzare e neutralizzare le insidiose problematiche moderne (…) e tenere ben saldi i rapporti fra scrittore e lettori: questi ultimi vanno anzitutto divertiti e «alleggeriti » del peso della vita – poi potranno essere impegnati nei più sottili problemi ermeneutici…

Per Berardinelli la proposta letteraria di Calvino si situa da un lato sotto la formula di una specie di letteratura «conciliativa» e dall’altro si presenta come «un universo letterario abitato da uno scrittore intento a studiare con la lente i propri processi mentali e formali».

Ma l’accenno all’alleggerimento o meglio alla «leggerezza», termine capitale nella poetica di Calvino, mi ha indotto a riportare alla mente  il saggio che quando mi passò tra le mani ebbe il potere di illuminarmi  definitivamente su di lui. Sono dieci paginette affilate  dal titolo “La leggerezza di Calvino e l’iperromanzo” contenute nel saggio “Romanzi. Leggerli, scriverli” (Feltrinelli 2007) di Cesare De Marchi. De Marchi è uno scrittore che ebbe un certo successo con il romanzo “Il talento” (1997) che gli valse il Campiello. Perlopiù ignorato in Italia -vive in Germania da un ventennio -è assente da ogni dibattito sia sulla carta stampata che in rete, ma  è scrittore meritevole di maggiore attenzione secondo il mio punto di vista di  affezionato lettore.

De Marchi evidenzia che questa “leggerezza” di Calvino vira non solo verso il “fantastico” – e per lui anche il suo primo romanzo sulla resistenza partigiana va ascritto a questo registro espressivo-, ma ha come fatale approdo l’elusione di ogni determinatezza del reale, ogni peso, ogni contatto pericoloso con la realtà.   De Marchi enuclea  il nesso conseguenziale e fatale tra la poetica della leggerezza e l’imbocco deciso e un po’ folle del labirinto dei marchingegni metaletterari.  Ciò in quanto Calvino adotta decisamente, proprio a partire da questa elusione dei “pesi” del reale, una prassi letteraria che, privata dei suoi riferimenti con  il mondo circostante, diventa metaletteraria (letteratura della letteratura), freddo gioco ludico e combinatorio, cerebrale esplorazione dei possibili narrativi, iperromanzo, ossia:  compiacimento del labirinto. Con esiti, aggiungo io, anche grotteschi o dada, perché l’idea di adoperare perfino i tarocchi come una macchina narrativa combinatoria (vedi “Il castello dei destini incrociati”) e l’inseguimento folle di una “macchina per moltiplicare le narrazioni” porta al nulla di fatto o a una sorta di  “Calderoli experience”  letteraria – come sapidamente ha osservato Raffaele Alberto Ventura qui per i milioni di emendamenti presentati dall’esponente leghista  in funzione di geniale e folle “guastatore”  della macchina parlamentare quanto forse questo Calvino si pose verso la macchina letteraria.

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Nella visione di De Marchi, e anche nella mia, la narrazione non può limitarsi a  “un disegno ben definito e bel calcolato” e nient’altro, dentro cui la rinchiuderebbe Calvino. Perché niente rende

 indimenticabile una lettura, se non la concretezza drammatica di una situazione, la vivezza di un carattere; e nient’altro che questo ci commuove in un testo letterario. E uso commuovere nel senso proprio di muovere l’animo. La cosa più rara e difficile in letteratura è proprio di introdurvi la presenza viva del fatto e della persona narrati.

Su altri punti dell’indagine di De Marchi, per esempio la strategia della dilazione  – tecnica ritardante sostanziata da interruzioni, sospensioni, retrospezioni,  con cui lo scrittore lega a sé l’attenzione di chi legge, che in ogni testo letterario conta quanto la tensione  e che egli perora come consustanziali al testo narrativo  ma contro cui Calvino aveva opposto la rapidità e l’esattezza del testo preferibilmente breve  (la short story) e  su altre osservazioni stimolanti rimanderei direttamente al suo testo citato.  Qui però dico subito che ho qualche esitazione a trovare del tutto insensata l’obiezione  verso le narrazioni lunghe e ritardate le quali troverebbero ostacolo forte nell’accelerazione vorticosa dei tempi da videogioco in cui siamo immersi (Calvino osservava con arguzia che noi vediamo il mondo come “cadendo dalla tromba delle scale”). So per certo che i testi lunghi in rete vengono elusi (anche questo che state leggendo)  ma  succede anche che hanno grande successo  tomi grossi così come “Il cardellino”, proprio perché i lettori assegnano a una lunga lettura la soddisfazione del bisogno di lentezza e di fluvialità come lucido antidoto  contro l’accelerazione, il vortice,i tempi sincopati della Nervenleben  (Simmel, “vita dei nervi”) del  mondo moderno, e si scopre talvolta che i lettori sono affascinati proprio  dai “long read”  moderni mentre magari davanti a “Guerra e pace” arretrano spaventati. Questo dibattito è sotto i nostri occhi nell’epoca della rete e della lettura/scrittura multimediale e lo lascio perciò qui impregiudicato anche perché non è facile prevederne gli sviluppi ultimi.

Concludo. Calvino adotterebbe il registro fantastico a luogo di quello “realista”. Ed è proprio ciò  che non mi  piace. Non si tratta qui di aggiungere una postilla al dibattito letterario sviluppatosi da Flaubert  in poi (cos’è effettivamente la realtà? Come rappresentarla? Vale di più la “coscienza” o il mare dell’oggettività?) quanto osservare che  il Calvino cerebrale che tanto ha soggiogato la scena letteraria italiana invocando anche  a gran voce  la sanatoria del postmoderno – termine dai più inteso in verità come “ultimo grido” come  ultramoderno, l’ultimo stadio dell’evoluzione delle lettere  – non ha fatto altro che favorire la vecchia tendenza, tutta italiana, dell’elusione della realtà.  Su questo specifico tema  Federico Zeri scrisse, con riferimento innanzi tutto alla pittura e in subordine  alla cultura italiana in genere, quel piccolo  capolavoro che è “La percezione visiva dell’Italia e degli italiani” (Storia d’Italia, Einaudi), dove si può leggere

la conferma della dicotomia in cui sta ora cadendo la cultura figurativa italiana, e in genere la cultura tutta intera: la percezione visiva in chiave naturalistica diviene sempre più rara (…) L’altra faccia della spaccatura quando non prende l’immagine visiva a pretesto per uno sfoggio di sapere letterario, di un umanesimo oramai fine a se stesso, si esprime in modi elusivi, evasivi e (sotto le apparenze di un discorso piano e comprensibile) supremamente stylish.

Siamo ancora immersi e strattonati tra la concezione di rappresentazione pittorica di Masaccio e di Masolino (Cappella Brancacci, nell’immagine sotto: “Guarigione dello storpio e resurrezione di Tabita” di Masolino da Panicale) con la sua «percezione sincera e obiettiva della realtà urbana»,  con i suoi panni stesi, e di contro l’«idealismo ornato» e intellettualistico del beato Angelico e Botticelli, tra ripresa seria del reale e l’adozione di un timbro giocoso tipicamente evasivo (nei cassoni nuziali di Giovanni Toscani).

Cappella_brancacci,_Guarigione_dello_storpio_e_resurrezione_di_Tabita_(restaurato),_Masolino

Si tratta della lotta, vecchia come l’Italia, tra due  precise percezioni visive e dei codici artistici a esse connessi  (l’indagine di Zeri va da Cimabue al neorealismo): presa in carico o elusione della realtà? peso o  “leggerezza”? narrazione come indagine seria o ludo combinatorio? Attenzione ai «particolari inesauribili della vita quotidiana» cui fa riferimento  De Marchi? o macchina delle narrazioni che genera infiniti possibili narrativi?

Non si vedono  “panni stesi” nella narrativa di Calvino ma neanche vi si sente l’odore dei rognoni fritti che Leopold Bloom usmava insieme ai propri effluvi mattutini seduto sulla tazza del water.

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