Letteratura
Eco vs Bongiorno
Umberto Eco è membro onorario della James Joyce Association, dell’American Academy of Arts and Letters, dell’Académie royale des sciences, des lettres et des beaux-arts de Belgique, della Polska Akademia Umiejętności, è “Fellow” del St Anne’s College di Oxford e socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei.
(cit. Wikipedia).
Ho sempre diffidato di chi accumula troppe onorificenze ufficiali, significa che è sempre stato dalla parte dei vincitori, senza un’esitazione, un dubbio, una caduta.
Umberto Eco ha avuto successo in qualsiasi impresa si sia cimentato.
Quando ha insegnato, è diventato il re degli insegnanti.
Quando ha cominciato a scrivere narrativa, è stato il più venduto.
Così con la semiotica, la filosofia, gli studi sui mass media, sempre inesorabilmente il migliore.
Che fosse vero o meno conta poco, quando cominciano ad appuntarti medaglie non si pone nemmeno più la domanda.
Nella sua biografia non ci sono crisi, pause, è una vita troppo piena, che atterrisce.
Sì, è una vita che non mi sta simpatica.
In questi giorni esce il suo ultimo romanzo sui mesi precedenti Tangentopoli, un po’ la versione in prosa della fiction 1992 interpretata da Stefano Accorsi.
Eco in un’intervista rilasciata di recente afferma di non voler parlare dell’ultima opera di Houellebecq, non avendola letta, io invece dirò qualcosa su un libro che non soltanto non ho letto, ma che non ho alcuna intenzione di leggere.
Bisogna che ci riappropriamo di un nostro diritto fondamentale, quello di seguire l’intuito, di giudicare dalle quarte di di copertina, da alcune immagini dei trailer o dal titolo se quel libro, quel film meriti il nostro tempo, sia adatto ai nostri bisogni più profondi.
A me è stato sufficiente leggere che «Numero zero» è ambientato nel 1992 nei tre mesi che contraddistinsero l’inizio di Tangentopoli, con protagonisti i redattori assunti da un cinico direttore, tale Simei, per confezionare i numeri zero di un giornale che si chiama “Domani” e che non uscirà mai.
Sembra la sceneggiatura di un film italiano medio con ambizioni alte, o un libro di Andrea De Carlo, di certo so che il mio pregiudizio ha molti padri, ragioni non sempre giustificabili e logiche.
Di certo so che Umberto Eco divenne famoso fin da giovane con una raccolta di saggi, uno di questi si intitolava Fenomenologia di Mike Bongiorno: il conduttore veniva preso in giro per il suo italiano scarno, la sua presunta banalità, il suo essere medio, e quindi proiezione ideale dello spettatore televisivo.
«Mike Bongiorno convince dunque il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo. Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello”.
Eco aveva avuto modo di osservare da vicino Bongiorno durante gli anni in cui aveva lavorato in Rai, assunto nel 1954 assieme ad altri giovani che si sarebbero fatti strada (Gianni Vattimo, Furio Colombo).
Bongiorno raccontò molti anni dopo di aver pianto leggendo il saggio, ma confessò anche che in realtà Eco aveva partecipato alla stesura delle domande di “Lascia o Raddoppia”, fatto questo che il professore ha sempre negato decisamente, così come sempre ha rifiutato i tanti inviti del conduttore a partecipare a qualche sua trasmissione.
Ben presto Eco divenne semiologo di fama internazionale e fu considerato il Barthes nostrano, senza avere neanche una centesima parte della sua genialità, in seguito fece i soldi veri con un feuilleton come Il nome della rosa indirizzato agli stessi lettori medi di cui diffidava, e con i romanzi seguenti ha fatto anche di peggio, usando strumentalmente la sua erudizione per ricavarne best seller stile Angeli e Demoni.
Successivamente può essere annoverato fra i mandanti, non solo morali, della scellerata creazione del corso di laurea in Scienze della Comunicazione di cui anche il sottoscritto fu studente. Un’accozzaglia di corsi che spaziavano, a seconda delle università e degli orientamenti, dalla sociologia al marketing, dalla comunicazione televisiva, qualsiasi cosa significhi, al diritto pubblico e alla storia contemporanea. Fu un espediente furbo per distribuire cattedre alle riserve delle altre facoltà, ed in alcuni casi il tentativo goffo di creare quel famoso ponte sempre auspicato fra mondo universitario e mondo delle professioni portò ad autentiche mostruosità didattiche.
Io, ad esempio, ebbi come professori Maurizio Costanzo e Michele Santoro.
Costanzo sarebbe potuto essere perfino un buon professore se ci avesse raccontato i segreti del suo talk show, invece aveva preso dannatamente sul serio il suo ruolo e cercava di imitare un autentico docente; procedeva con un eloquio lento, funereo, dai risultati desolanti.
Michele Santoro d’altro canto considerava il suo incarico una specie di prolungamento del suo studio televisivo e per questa ragione invitava ospiti a tenere lectio magistralis dalla dubbia efficacia, si susseguivano mezzibusti dei telegiornali, inviati di guerra poco coraggiosi, reporter dalla faccia truce.
Eco all’epoca era l’incontrastato preside della Facoltà di Comunicazione a Bologna e intascava le royalties dei diritti dei suoi libri diventati nel frattempo film, intanto io leggevo nella piccola biblioteca sovraffollata della nostra sede universitaria, già in passato onvcento di monache, i suoi testi accademici.
Il superuomo di massa, Diario minimo, Apocalittici e integrati, sicuramente era bravo a scegliersi i titoli, ma il contenuto era ampiamente sopravvalutato.
Parallelamente Mike Bongiorno diventava una figura sempre più periferica ed a tratti teneramente sorpassata.
I suoi programmi erano concilianti, lui era troppo formale, il quiz non era più di moda, dalla prima serata passò alla fascia pomeridiana, poi a mezzogiorno, da Canale 5 scivolava su Rete 4, l’anticamera del pensionamento.
Negli ultimi tempi Fiorello lo aveva riscoperto come spalla comica, con l’età era diventato molto meno cauto, nelle interviste si raccontava di più, mostrava il suo lato sarcastico.
Lo vidi di persona un paio di mesi prima che morisse, giocava a fare il rimbambito, sembrava simpatico.
Quando morì rividi le sue interviste; raccontava l’ infanzia benestante ma poco felice, il ritorno in Italia, i mesi di prigionia durante la guerra, a San Vittore e dopo in un campo di concentramento, e poi Lascia e Raddoppia, il successo, la follia riuscita della tv commerciale, la passione per l’alpinismo, il Polo Nord raggiunto con le slitte a 70 anni.
Comprai anche il suo libro, La versione di Mike, nel quale c’erano cose molto intelligenti dette con grande umiltà; era un perfetto uomo medio che aveva vissuto una vita per niente media e questo la maggior parte degli uomini mica lo può accettare, di certo non lo può accettare un professorone con 39 lauree honoris causa.
La biografia di Bongiorno era piena, eppure sembrava che nessuno se ne avvedesse.
La sua vita mi sta più simpatica.
p.s: Volete che mi scagli contro qualcuno? Mandatemi la vostra proposta a criticodellavita@gmail.com
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