Legislazione
Cirinnà: il cinismo a 5 Stelle mette il dito in tutte le piaghe del renzismo
La politica democratica, dopo tutto, funziona così. Funziona che se hai i numeri, se hai una maggioranza, se l’hai vista sancire elettoralmente o l’hai con tenacia, forza e furbizia costruita politicamente, presenti le tue idee, in forma di progetti, e poi vinci, e i progetti diventano legge dello stato. Cambiano la vita delle persone. Istituiscono diritti, o ne tolgono. Incorporano decisioni e scelte, distribuiscono risorse, o ne tolgono, assumono a diritto comportamenti che prima erano illeciti, o addirittura reati. O decidono che sono vietati, o addirittura reato, comportamenti più o meno diffusi. A questo serve il diritto, e a fare il diritto è appunto la politica.
Succede così che, date queste promesse costituzionalizzate in ogni tipo di ordinamento fondato sulle rappresentanza parlamentare e sul voto universale, la lungamente attesa, agognata legge sui diritti civili, nota alle cronache per essere legata al nome di Monica Cirinnà, sia prossima a sbattere contro la scogliera di una maggioranza che non c’è, o a venire significativamente corretta e modificata, pur di essere approvata. La maggioranza non c’è più? Non c’è mai stata? Avrebbe potuto esserci, ma non è stata costruita?
Riavvolgiamo il nastro dall’inizio, seppur in estrema sintesi. Il DDL Cirinnà, che regolamenta le unioni civili e richiama molti articoli del codice civile sul matrimonio per le unioni delle stesso sesso, ha da sempre un punto politico ritenuto critico: la stepchild adoption. In tanti, tanti di più rispetto a pochi mesi fa, sanno cos’è, ed è almeno – questa, piccola, proviamo a consolarci – un’acquisizione importante, perché è dall’alfabetizzazione di oggi che nasce la mobilitazione di domani. La stepchild adoption è un istituto praticato in moltissimi ordinamenti, che consente, a determinate condizioni, l’adozione del figlio di solo uno dei membri della copia da parte del compagno (di coppia omosessuale, o eterosessuale). Ovviamente, l’episodio si capisce meglio quando si pensa a coppie in cui i bambini crescono e poi si trovano privati dal destino del genitore biologico. Altrettanto ovviamente, in un piccolo, esiguo numero di casi, l’istituto interessa e riguarda figli nati da maternità surrogata (cd “utero in affitto”), ma nella maggioranza dei casi la vicenda è quella di figli venuti al mondo “naturalmente” e che hanno seguito – felicemente, infelicemente, secondo leggi statistiche che riguardano tutti i figli – il cammino di un loro genitore.
Fin dallo scorso autunno, si è capito in modo chiaro che la maggioranza parlamentare che regge il governo guidato da Matteo Renzi sul punto non avrebbe retto. O che, quantomeno, sarebbe stato davvero difficile portarsi dietro tutti. Il povero Alfano e i suoi Giovanardi, a ruota su tutto, influenti su niente, evidentemente inadeguati ad ogni battaglia che porti nel cuore dell’opinione pubblica e lontano da qualche improbabile feudo elettorale, almeno su questo avevano annunciato una battaglia di principio da cui non avevano intenzione di recedere. Tanto che Luca Lotti, uno dei tre di cui Renzi si fida ancora davvero, aveva previsto che sul DDL Cirinnà era possibile immaginare altre maggioranze parlamentari per arrivare all’approvazione (29 ottobre).
Già, perché fin dall’autunno la fronda esplicita degli esponenti cattolici dell’ex (ora Nuovo) Centro-destra alleati (decisivi) del Pd prefigurava, quasi apriva la strada, a un mal di stomaco che si andava accendendo nel cuore della pancia del Pd. I “catto-dem”, gruppo di parlamentari del Pd che danno nome di “cattolico” alla loro battaglia contro la Stepchild Adoption, vanno coagulandosi in modo chiaro proprio in occasione del dibattito parlamentare sul DDL Cirinnà. Di fatto, la competizione sul consenso è con Nuovo CentroDestra, e le idee in campo sono sostanzialmente le stesse. Più si chiarisce lo scenario, e più si capisce che senza i voti compatti, convinti, del Movimento Cinque Stelle la legge difficilmente andrà in porto. I parlamentari del Movimento fondato di Beppe Grillo e GianRoberto Casaleggio, inizialmente, sembrano giocare una partita accorta, politica, e acuta. “Noi voteremo compatti” dicono “a patto che la legge vada avanti così com’è, stepchild adoption compresa”.
Bella mossa, pensavamo anche da queste parti. Diventando indispensabili per l’approvazione di una legge epocale, gli ex grillini, ormai diventati grandi, metteranno a nudo tutte le debolezze dello schema politico cui Renzi è di fatto costretto, ma si mostreranno indispensabili e leali proprio su un tema di civiltà politica e umana. Non faranno battaglia tattica, ma presenteranno il conto alle urne, facendo leva sul (proprio) senso di responsabilità. Neanche il tempo di pensarlo, e ci siamo trovati a fare ammenda: prima Griillo “impone” la libertà di coscienza, poi tutti in corso, guidati dal prode Di Maio ci spiegano che quasi tutti voteranno comune il DDL così com’è, infine – notizia di ieri – di fronte all’opportunità di far saltare il tavolo negando il consenso che serve a saltare il gorgo degli emendamenti ostruzionistici, il movimento preferisce mandare nel casino il governo Renzi piuttosto che sanare una situazione di inciviltà assegnando diritti a chi ne merita, ne ha in tutto il mondo civile, ma non da noi.
Vero, tutto vero. Cinici, inaffidabili, politicisti come e peggio degli altri, questi grillini. E però, alla fine della storia, una cosa non si può non vedere, ed è l’errore di valutazione – marchiano – che ha guidato questa storia dall’inizio: e sta tutto in capo a Renzi, in quanto presidente del consiglio, e poi in capo al segretario del Partito Democratico, al secolo Matteo Renzi. Perché nella sua variopinta maggioranza – non gliene facciamo una colpa, è l’unica possibile – i numeri sul punto erano assai ballerini dall’inizio. Colpa di quell’indispensabile mezza figura di Alfano, ma anche di un Pd sempre porosissimo alle pressioni esterne, che poi vengano da oltre il Tevere, o solo sia immaginabile che vengano da lì, è un dettaglio che giganteggia alla fine della storia. Il dato di realtà, tuttavia, era questo: non averlo visto e, per arroganza o per mancanza di analisi, aver “tirato dritto” rischia di avere costi pesanti. Anzitutto, per chi non ha diritti e continuerà a non averli. Perché è evidente che, costruendo meglio il percorso, si sarebbe portata a casa subito e senza colpo ferire una legge sulle unioni civili, e poi si sarebbe combattuta una battaglia parlamentare per una legge (sacrosanta) sulle adozioni. Si dirà – e chi scrive lo pensa, per la verità – che era poca roba, pochissima roba, una legge così, nel 2015: ma fare politica, soprattutto se non si nasce in nome delle rivoluzioni – e questo non è il caso di Renzi, possiamo stare sereni – è anche analizzare con realismo gli obiettivi e lavorare per perseguirli, al meglio, migliorando la vita dei cittadini. Prendendosi le critiche di chi voleva di più, ma dando di più a chi non aveva niente. Quel che imputiamo, a Renzi, non è stavolta una maggioranza composita e tragicomica, ma il non aver soppesato come si deve le forze in campo. Per un politico professionista, e che politico, non è errore da poco, e precisiamo solo per dovere di cronaca che non crediamo – neanche minimamente – alle dietrologie di chi voleva Renzi fin dall’inizio “complice” dei nemici della legge né siamo nostalgici di pratiche poco ortodosse, come il canguro taglia-emendamenti deprecato come poco democratico in materia di riforme istituzionali, e che difficilmente può diventare democratico se si parla d’altro.
Qualcuno, infine, guarda indietro, ai mesi e agli anni scorsi, e dice, comprensibilmente: “Ma perché la fiducia il governo la chiede sul Jobsact, ma non sui diritti civili?”. Perché – traducendo dalla costituzione alla vita – scommette l’osso del collo sul nuovo diritto del lavoro, in definitiva volto al superamento di storici totem della sinistra storica, ma non sui diritti civili, totem della nuova sinistra mondiale? Bella questione. Forse perché, sul jobsact, il rischio di vedere cadere il governo era men che residuale, e qui è più che concreto. E insomma, Renzi, diranno i critici, non vuole correre il rischio per amor di potere. È certamente un’ipotesi, ma non è l’unica possibile, soprattutto guardando qualità e concretezza delle alternative presenti sul mercato. Per capirci: proprio le stesse forza politiche che con il cinismo di cui sopra hanno affossato una legge giocando sulla pelle di cittadini senza diritti. Quel che resta è il pasticcio complessivo e inconcludente: diritti che si allontanano, prospettiva politica che si offusca, e in bocca un retrogusto amarognolo. Che sa di fiele guardando avanti: oggi una politica sensata perde, forse, per poca solidità nella palude romana. Immaginatevi che bella fine rischiamo, domani, a Bruxelles.
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