Legislazione
Abolire le tasse sulla prima casa è sbagliato, ecco perché
(Tratto da Lavoce.info del 25 gennaio 2013)
Nel pieno della campagna elettorale per le politiche del 2013, a promettere l’abolizione dell’Imu e la restituzione per quella del 2012 fu Silvio Berlusconi. Lo scritto ritrova piena attualità oggi che la stessa promessa viene fatta da Matteo Renzi.
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Con una fiscalità che favorisce la prima casa, la quota di abitazioni in affitto è straordinariamente bassa in Italia, con conseguenze sulla crescita. Ecco perché l’abolizione dell’Imu sull’abitazione principale sarebbe iniqua e dannosa per il paese
POCHE CASE IN AFFITTO
In Italia la quota di abitazioni in affitto è straordinariamente bassa: circa il 20 per cento del totale contro il 32 per cento in Inghilterra, il 40 per cento in Francia, il 55 per cento in Germania. La penuria e l’elevato costo delle abitazioni in affitto ha varie conseguenze negative. Il patrimonio immobiliare è malamente sfruttato (le abitazioni vuote sono molte e si rimane nella casa anche quando è divenuta troppo grande). La mobilità geografica delle persone è fortemente scoraggiata, con rilevanti effetti negativi sulla flessibilità e produttività del lavoro e quindi sul potenziale di crescita dell’economia. Un proprietario che voglia trasferirsi per motivi di lavoro deve sostenere un costo, tra vendere e comprare una nuova abitazione, che può eccedere facilmente il 10 per cento, ovvero il costo medio di tre anni di affitto: difficile pensare che il maggior reddito del nuovo lavoro possa compensarlo. Se, cambiando città, si affitta la propria abitazione e si prende in affitto un’altra casa nella nuova sede, sull’affitto incassato si paga imposta, ma non si può dedurre il canone pagato, come avviene invece in altri paesi, ad esempio in Germania. La scarsità di offerta per affitto a canoni contenuti, poi, penalizza soprattutto i giovani e i meno abbienti, mentre il prezzo di acquisto della casa in relazione al salario medio è aumentato nell’ultimo decennio del 45 per cento, secondo un’indagine della Banca d’Italia.
LE TASSE SUGLI IMMOBILI
La situazione dipende da vari motivi, tra i quali un peso preminente ha la fiscalità che favorisce in ogni modo la prima casa e penalizza l’affitto. Vi è un netto conflitto tra quello che la teoria economica indica si dovrebbe fare e quello che fa la politica alla ricerca di voti.
Mentre l’edilizia pubblica è paralizzata per mancanza di fondi, l’investimento privato in abitazioni da affittare è penalizzato, oltre che dai vincoli sulla durata dei contratti e dalla difficoltà di liberare l’abitazione al bisogno, dall’imposta di registro sull’acquisto (10 per cento contro 3 per cento per la prima casa), dall’Imu (con aliquota assai più alta che sulla prima casa), dalla tassazione sul reddito (con cedolare secca o Irpef, mentre il reddito figurativo sulla prima casa è esente) e dal 2 per cento per la registrazione annuale del contratto. Si noti poi che l’abbattimento del reddito (ridotto da questo governo dal 15 al 5 per cento) è del tutto insufficiente per coprire i costi condominiali e straordinari a carico della proprietà e pertanto l’incidenza effettiva dell’imposta sul reddito netto è assai più elevata di quella nominale.
Non stupisce quindi che le case in affitto siano relativamente poche e costose: con queste politiche si intendeva colpire la rendita fondiaria, ma in realtà gli oneri finiscono poi per gravare sui più deboli che non hanno alternativa all’affitto: politiche dettate dalla ricerca di consenso elettorale finiscono spesso per avere risultati opposti a quelli proclamati.
DOV’È L’EQUITÀ?
In passato il reddito catastale della prima casa era assoggettato all’Irpef, come in molti altri paesi. Nel 2000 ne fu decretata l’esclusione dal reddito imponibile (dal ministro Visco, anche allora per motivi elettorali) ma fu una scelta fiscale sbagliata sul piano dell’equità, della neutralità dell’imposta e degli effetti sull’economia.
L’equità è violata perché si concede uno sgravio fiscale molto maggiore a chi possiede abitazioni di elevato valore rispetto a chi possiede abitazioni modeste: la norma è palesemente regressiva. L’equità è violata anche nel confronto tra chi possiede un’abitazione e chi vive in affitto. A parità di reddito corrente entrambi pagano la stessa imposta, ma il primo gode di un reddito (standard di vita) più elevato non dovendo pagare l’affitto e quindi viene tassato a un’aliquota effettiva minore del secondo. Le disparità che ne derivano possono essere assai ampie. Un rapporto Istat sulla distribuzione dei redditi in Italia indica che i cosiddetti “fitti imputati” rappresentano oltre il 20 per cento del reddito medio delle famiglie italiane.
Si viola anche la neutralità tra investimenti finanziari e investimento nella prima casa. I primi sono tassati sia sul reddito che sulle plusvalenze, mentre il secondo è esente, sia per il reddito (figurativo) sia per le plusvalenze, e si consente, entro limiti, la deducibilità degli interessi passivi pagati sull’eventuale mutuo.
Le imposte reali sugli immobili, come la nostra Imu, sono la principale fonte fiscale per i comuni in tutti i paesi evoluti. Queste imposte sono eque perché nel valore degli immobili si capitalizza il contributo dei servizi pubblici locali, sono facili da riscuotere e sono efficienti in quanto non suscettibili di alterare significativamente le scelte degli individui. La nostra Imu però grava oggi soprattutto sui fabbricati strumentali, per i quali l’imposta è in molti casi più che triplicata rispetto all’Ici, penalizzando quindi in qualche misura anche la competitività delle imprese. Esentare dall’Imu la prima casa, che già gode di una franchigia e paga un’aliquota assai inferiore agìlle abitazioni in affitto, non avrebbe alcuna giustificazione economica e peggiorerebbe ancor più la regressività dell’imposizione sulle abitazioni.
Nel complesso la fiscalità che grava oggi sulla prima casa è bassa e regressiva. La teoria fiscale sull’efficienza, equità e neutralità delle imposte suggerirebbe tutt’altra politica: tornare a tassare il reddito figurativo della prima casa ed assoggettarla all’Imu al pari delle abitazioni in affitto. Per determinare il reddito figurativo occorrerebbe anche aggiornare i valori catastali notoriamente disallineati da quelli di mercato, e mediamente assai inferiori, o ricorrere a stime di valore basate sulle rilevazioni dell’Agenzia del Territorio.
Si potrebbe poi utilizzare il maggior gettito per ridurre le imposte e i contributi sociali che gravano sul lavoro stimolando così la crescita e l’occupazione, e magari anche, in parte, per ridurre le imposte sugli altri costi connessi alla casa, come quelle che gravano sulle bollette della luce e del gas, imposte anch’esse fortemente regressive e molto più elevate in Italia che negli altri paesi europei.
Proporre, in campagna elettorale, l’abolizione dell’Imu sulla prima casa può far guadagnare voti, visto che la gran maggioranza degli italiani è proprietaria della sua abitazione, ma è iniquo e dannoso per il paese. C’è invece chi si vanta di dire la verità agli italiani: perché allora non trovare il coraggio di spiegare i validi motivi per opporsi a questa misura e andare nella direzione opposta, senza limitarsi solo a invocare i vincoli di bilancio?
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