Legislazione
«Tre volte No alla riforma Renzi-Boschi». Intervista con Luigi Ferrajoli
Magistrato, professore universitario, allievo di Norberto Bobbio e teorico del garantismo e della democrazia costituzionale di fama internazionale, Luigi Ferrajoli, 76 anni, è il giurista italiano che ha espresso la bocciatura più dura e radicale della legge costituzionale che sarà sottoposta a referendum confermativo il prossimo 4 dicembre.
Professor Ferrajoli, sulla riforma Renzi-Boschi lei ha espresso un triplice No: nel principio, nel metodo, nel merito. Partiamo dal primo punto: che cosa critica in linea di principio nella riforma voluta dal Governo Renzi?
La riforma proposta non è una revisione della Costituzione, ma è un’altra costituzione: vengono cambiati 47 articoli su un totale di 139. E questo non è consentito: l’unico potere ammesso dall’articolo 138 della nostra Costituzione è un potere di revisione. Da questo discende il primo profilo di illegittimità: l’indebita trasformazione del potere di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138, che è un “potere costituito” dalla Carta, in un “potere costituente” non previsto dalla nostra Costituzione.
Una riforma contro la Costituzione della Repubblica del 1948?
Anche a voler tralasciare il fatto pur rilevante che questo Parlamento è stato eletto con una legge elettorale dichiarata incostituzionale, resta che la nostra Costituzione non prevede l’approvazione di una nuova costituzione, neppure ad opera di un’ipotetica assemblea costituente che decidesse a larghissima maggioranza, ma solo singoli e puntuali emendamenti.
Se, come lei sostiene, questa riforma ha travalicato i limiti dell’articolo 138 perché il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella non ha esercitato la facoltà di rinviare la legge alle Camere e chiedere una nuova deliberazione?
È una domanda che in molti abbiamo sollevato e non ha ancora avuto alcuna risposta. Il presidente Sergio Mattarella avrebbe ben potuto, in base all’articolo 87 della Costituzione, inviare un messaggio alle Camere per ricordare taluni principi elementari: come la necessità che le riforme costituzionali siano approvate con la più ampia maggioranza parlamentare e, per altro verso, il potere del Parlamento di approvare, in sede di revisione, singoli emendamenti, e non una quantità eterogenea di modifiche, a garanzia dell’omogeneità del quesito referendario più volte richiesta dalla Corte costituzionale onde consentire agli elettori di esprimere consenso o dissenso a specifiche revisioni. Ed è paradossale che di questi abusi di potere si sia fatto addirittura promotore il precedente Presidente della Repubblica, che pure aveva giurato fedeltà alla Costituzione del 1948 e che di questa avrebbe dovuto essere il garante.
Senza la determinazione di Renzi, le riforme, di cui si discute da decenni, sarebbero ancora lì ad aspettare, si dice.
È da oltre trent’anni che si cerca di far cadere sulla Costituzione le responsabilità dei governi per le loro pessime politiche. Secondo i fautori dei vari progetti di riforma – che hanno avuto in comune il costante tentativo di indebolire il Parlamento e rafforzare il governo –, la crisi e il discredito dei partiti, la loro corruzione, l’esplosione del debito pubblico, l’aggressione allo stato sociale e ai diritti dei lavoratori, la selezione di una classe dirigente pessima e, in definitiva, l’inettitudine dei governi che si sono succeduti, sarebbero tutta colpa della Costituzione del 1948.
Passiamo al metodo di approvazione.
Per il modo in cui è stata approvata questa riforma è un oltraggio all’idea stessa di costituzione: le costituzioni dei paesi democratici sono patti di convivenza, stabiliscono pre-condizioni che devono garantire tutti: qualunque costituzione degna di questo nome è tendenzialmente frutto di un consenso generale. Nel ’48, pur nella contrapposizione ideologica fra cattolici, comunisti e liberali, la nostra Carta venne approvata da una maggioranza amplissima: 453 voti a favore e 62 contrari.
Invece che cosa è la riforma di Renzi-Boschi?
È una costituzione approvata da una minoranza, e cioè da un partito che alle ultime elezioni ha preso il 25% dei voti, corrispondente a circa il 15% degli elettori. Questi elettori, grazie ad una legge elettorale dichiarata incostituzionale (il “Porcellum”, ndr) sono stati trasformati in maggioranza. Non solo. È una costituzione approvata strozzando il dibattito parlamentare, a colpi di “canguri” e “tagliole”, fino all’approvazione in un’aula semivuota per l’Aventino delle opposizioni. Per votare No a questa nuova costituzione basterebbe leggerla. Ma è precisamente questo che il quesito referendario, formulato in termini ingannevoli e accattivanti, impedisce di fare.
Viene davvero superato il bicameralismo paritario, come riportato nel quesito sottoposto a referendum?
Il bicameralismo paritario non viene affatto soppresso, ma mantenuto per una lunga serie di leggi, dalle leggi costituzionali alle leggi elettorali e a molte altre. Per le leggi restanti viene sostituito da un bicameralismo imperfetto, cioè da più forme di coinvolgimento del Senato in altrettanti tipi di procedimenti legislativi, con conseguente incertezza e complicazione della funzione legislativa. Si aggiunga che il Senato sarà formato da senatori non eletti dai cittadini ma dai Consigli regionali.
Questa riforma paradossalmente allungherà i tempi anziché accorciarli e farà perdere tempo in contenzioso fra le istituzioni?
Siamo di fronte a un pasticcio che darà vita a incertezza e conflitti, poiché i diversi tipi di procedimenti legislativi sono distinti sulla base delle diverse materie e spesso non è possibile tracciare confini rigorosi fra una materia e l’altra. Il nuovo articolo 70 stabilisce che “i Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza”. Ma che succederà se i due presidenti non saranno d’accordo? Si rischia di dar vita a un contenzioso incontrollabile su questioni di forma che finirà per allungare i tempi dei procedimenti e per investire la Corte Costituzionale di una quantità imprevedibile di ricorsi di incostituzionalità per difetti di competenza.
Cosa farà se il No, da lei sostenuto, dovesse perdere?
La vittoria del sì, accoppiandosi alla nuova legge elettorale (“Italicum”, ndr), sancirebbe la trasformazione della nostra democrazia parlamentare in un sistema interamente incentrato sull’esecutivo. Il Parlamento si trasformerebbe in un mero organo di ratifica: praticamente, anziché essere il Governo a dover ricevere e mantenere la fiducia dal Parlamento, avremmo dei parlamentari che dovrebbero guadagnarsi la fiducia del Governo, se non vorranno rischiare lo scioglimento della Camera e la loro non rielezione. Perciò, se dovesse vincere il Sì, bisognerebbe puntare a una riforma della legge elettorale in senso puramente proporzionale, senza premi di maggioranza né soglie di accesso al Parlamento. Purtroppo, su questa possibilità, non mi faccio illusioni.
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