UE
Gli inglesi chiudono le porte agli europei, inizia la fine d’Europa?
C’era un principio fondativo su cui nessuno, tra quanti credevano al progetto dell’Europa politica ed economica unita, ha mai voluto seriamente aprire il dibattito, ed è il principio della libera circolazione e residenza dei cittadini degli stati membri nei diversi stati membri. È un principio che nessuno, nel pur composito fronte degli europeisti, ha mai messo in discussione per una ragione molto semplice: discuterlo ed eventualmente recedere da esso significherebbe porre fine all’Europa unita, che sulla libera circolazione dei cittadini degli stati membri e delle merci da essi prodotti e distribuiti si fonda fin dalle sue origini.
Nessuno aveva mai messo in discussione il principio, dicevamo, fino ad oggi. A farlo è uno stato membro pesante benché da sempre scettico e abituato a guardare l’altra sponda dell’atlantico, cioè la Gran Bretagna oggi guidata da David Cameron. Lo fa sul Sunday Times, a firma di una ministra come Theresa May, e pone la questione in modo molto chiaro. È tempo di ripensare – dicono i britannici – il principio fondativo da cui siamo partiti. l’immigrazione intraeuropea ha raggiunto livelli di guarda: questo ha detto la signora May. La proposta del governo Cameron va nella direzione della maggioranza delle leggi sull’immigrazione: si può emigrare verso la Gran Bretagna in presenza di una chiara e comprovata offerta di lavoro. Quello che prevedono molti ordinamenti nazionali per cittadini stranieri. Quello che prevedono molti ordinamenti di stati europei, per cittadini che europei non sono. Un concetto chiaro, lineare, strettamente politico e fondato su alcuni dati che nei giorni scorsi sono arrivati anche da noi. Cinquantasettemila italiani dall’inizio dell’anno, abbiamo letto, sono emigrati in Gran Bretagna cercando lavoro e fortuna. Un numero record. Avremmo potuto e dovuto annotare che, in mezzo a tante cifre entusiastiche su una vigorosa ripresa dell’economia italiana, questo dato rivelava più di tanti altri – e in modo chiaro e univoco – che forse tutta questa fervente ripresa non c’è, o almeno non è percepita. Avremmo anche dovuto pensare, un po’ meno provinciali di quel che siamo, che se siamo in tanti a emigrare dall’Italia verso Londra, tanti e tanti più devono essere gli altri europei che vanno verso gli stessi lidi. Infatti, sono già 330 mila gli europei che nel 2015 sono sbarcati a Londra: è già stato stabilito un record rispetto a tutti gli anni censiti, spiega il Financial Times, e questa cifra rappresenta un numero tre volte superiore rispetto al target che Londra poneva per l’anno. Si aggiunga, a questo, la pressione concreta e mediatica che viene esercitata dalle ondate di disperazione e guerra che spinge milioni di cittadini extraeuropei a cercare un futuro, uno qualsiasi, nei nostri paesi invocando di fatto una politica comune a tutta l’Unione.
A Londra questi dati, e la loro materiale influenza sulla vita quotidiana dei cittadini britannici, sono una pioggia gelata su un terreno ampiamente inzuppato. La crisi economica di questi anni ha colpito sicuramente anche il paese guidato da Cameron, anche se diversi indicatori rivelano una salute e una stabilità invidiabile. Pensiamo alla disoccupazione, fattore principe di tensioni sociali, che nell’agosto che sta finendo ha toccato il 5,6% e i minimi dall’inizio della crisi. Un dato che più di ogni altro rivela lo stato di salute complessivo di un sistema economico e la conseguenza capacità di attrarre intelligenze e speranze che infatti, in gran numero, pensano a Londra come alla terra promessa più vicina. L’ondata migratoria made in Eu che si è riversata su Londra ha avuto poi sicuramente l’effetto di accelerare i sentimenti anti-europei di molti inglesi. Provando ad arginare proprio quei sentimenti David Cameron, nella recente e vincente campagna elettorale, ha promesso un referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione: la data inizialmente fissata è per il 2017, ma si fanno insistente le voci di un possibile anticipo al prossimo anno. Non a caso, proprio mentre in Europa si stavano per diffondere le parole di una sua ministra, Cameron visitava Spagna e Portogallo per discutere i principali dossier che legano problematicamente i destini di Londra al resto dell’Europa.
Il cammino che potrebbe portare a discutere il principio della libera circolazione lungo e irto di ostacoli, ma la strada politica che esce oggi da questo nuovo dibattito pubblico è chiaro, e univoca. Uno dei paesi più importanti dell’Unione Europea, da sempre esterno al cammino che ha portato all’Euro e all’Unione monetaria, chiede che sia messo in discussione e ribaltato il principio fondativo dell’Europa. Senza Schengen rimarrebbe una moneta unica vacillante, il sogno improbabile di un’unione politica e fiscale più solida, e questa costosissima burocrazia che sta tra Bruxelles e Strasburgo, che regola in modo capillari aspetti della nostra vita senza che sia davvero comprensibile ai cittadini perché, e nell’interesse di chi, con l’unico risultato di costruire un’Europa, se possibile, ancora meno comprensibile e ancora più ostile e distante. Chi avrà la forza di opporsi? Chi avrà la lungimiranza per argomenti solidi e per un percorso che rimetta al centro principi e valori? Non sarà facile, anche perché le opinioni pubbliche interne e le ondate populiste premono su tutti i governi, non solo su quello inglese. Che per primo ha scoperto le carte e ha indicato qual è la sua via. Alla fine di quella strada potrebbe esserci la fine del sogno europeo. Vale la pena di iniziare a pensarci, da subito.
p.s Nella prima versione dell’articolo facevamo riferimento al trattato di Schengen, che la Gran Bretagna non ha sottoscritto e che riguarda il controllo ai confini, mentre ad essere messo in discussione è anzitutto il principio, più radicale, di libera circolazione. Nel suo intervento Theresa May chiede comunque una revisione anche di Schengen, pur non essendo mai stato sottoscritto dal paese che lei rappresenta.
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