Macroeconomia
Ritorno al Franco: la paura corre sullo Spread
Il 2017 non sarà un anno noioso per le sorti dell’euro. È in gioco la stessa sopravvivenza della moneta unica, sotto la pressione dei problemi di Paesi come Italia e Francia che destano preoccupazioni ben più serie rispetto a piccole economie come quelle di Grecia o Portogallo.
I mercati finanziari hanno percepito immediatamente la criticità della situazione. Ad aprile i francesi andranno a votare e la Le Pen ha dichiarato che in caso di vittoria dedicherà i primi 6 mesi del suo mandato a guidare il Paese fuori dalla moneta unica. Dal canto suo l’Italia non gode di migliore salute, praticamente pietrificata sotto il fardello del debito pubblico e privato, con modeste aspettative di crescita e una perdurante instabilità politica.
Né l’Europa aiuta a placare gli animi. Anzi. La Germania continua la sua crociata a oltranza per la virtù fiscale e suggerisce ristrutturazioni del debito pubblico dei Paesi periferici (a partire dal nostro) secondo lo schema già seguito per la Grecia quando non si spinge fino a parlare di un’Europa a più velocità. E la BCE per difendere l’irreversibilità dell’euro non esita a lanciare sgradevoli moniti. Ultimo in ordine cronologico il diktat di Draghi dello scorso 20 gennaio: se un Paese vuole uscire deve prima liquidare la sua posizione Target2 nei confronti dell’Eurosistema. L’Italia ad esempio dovrebbe pagare più di 360 miliardi di euro. L’equivalente di un (grosso) debito di guerra, come quello che qualche decennio fa fu abbuonato proprio alla Germania. Ma quelli erano altri tempi, un’altra Europa!
Come al solito, i mercati finanziari capiscono cosa potrebbe nascondersi dietro questa sciarada e corrono ai ripari cercando di coprirsi dal rischio dell’evento estremo, il «cigno nero» , e cioè l’Italexit, il Frexit o addirittura la dissoluzione dell’intera zona euro.
A dirlo sono i dati sui credit default swap (CDS), quei contratti derivati che offrono protezione nel caso si verifichi uno degli “eventi assicurati” o, in gergo, un evento di credito. La logica è esattamente quella di un’assicurazione come l’RCA, solo che qui l’“incidente” sarebbe la ridenominazione del debito in una nuova valuta nazionale destinata a svalutarsi in misura più o meno consistente rispetto al dollaro con conseguente perdita per l’investitore-creditore che ha finanziato quel debito.
Per interpretare correttamente i dati sui prezzi dei CDS serve un breve flash-back al 2012, altro anno di grandi tensioni per la moneta unica, all’epoca soprattutto per via della ristrutturazione del debito greco e della crisi del sistema bancario spagnolo. Grande spavento. Manco la bufera era finita che già gli investitori istituzionali di tutto il pianeta avevano iniziato a pensare a un modo per immunizzarsi dal pericolo di rottura dell’Euro o di uscita unilaterale di un membro di grosso calibro come l’Italia o la Francia appunto.
Allora le opzioni disponibili per mettere in piedi una valida strategia di hedging erano poche, anche comprando CDS. Questo perché gli standard dell’ISDA – l’International Swaps and Derivatives Association che stabilisce ufficialmente a livello globale cosa sia un evento di credito e cosa no – escludevano esplicitamente dalla lista degli eventi creditizi la ridenominazione del debito in una nuova valuta per i Paesi appartenenti al G7 (sempre e comunque) e per quelli appartenenti all’OCSE (purché con un rating investment grade, cioè con un buon merito di credito).
Quando le opzioni scarseggiano, bisogna inventarne di nuove. Così due anni dopo, a fine settembre 2014, entravano in vigore i nuovi standard ISDA dove, come prevedibile, i salvagenti del G7 e dell’OCSE sono spariti e lo scenario di un rimpiazzo dell’euro con un’altra valuta è esplicitamente disciplinato. Il tema è estremamente tecnico, ma in prosa si può riassumere così: la ridenominazione non comporta un evento di credito se la nuova valuta è una delle valute di riserva (dollaro statunitense o canadese, sterlina, yen, franco svizzero). In tutti gli altri casi l’unico modo per evitare l’evento di credito è che la ridenominazione non determini una perdita per l’investitore (“no reduction in the rate or amount of interest, principal or premium payable”).
Da allora sui mercati finanziari convivono due tipi di CDS: quello pre-vigente (ISDA 2003) e quello nuovo (ISDA 2014). Quest’ultimo – anche per altre revisioni rispetto alle vecchie definizioni degli eventi di credito – ha sempre avuto un prezzo (CDS spread) più alto del CDS-2003, e comunque con un differenziale (c.d. ISDA Basis) contenuto: 15-20 punti base per l’Italia, 8-12 punti base per la Spagna, 2-4 punti base per la Francia, 1-2 punti base per la Germania, essendo quest’ultima percepita come un Paese a basso rischio di ridenominazione e, in più, anche a basso rischio di svalutazione nella remota ipotesi di un ritorno al marco.
Ma quest’anno per la prima volta qualcosa è cambiato. Da fine gennaio l’ISDA Basis è schizzata verso l’alto nelle maggiori economie dell’eurozona indicando che gli investitori percepiscono un inasprimento del rischio di ridenominazione. Il resto è pura fisiologia dei mercati finanziari: un maggior rischio stimola la domanda di protezione con conseguente apprezzamento dei CDS-2014 che sono lo strumento più adeguato per appianare eventuali perdite su titoli connesse al cambio di valuta.
La Figura 1 riporta l’evoluzione dei CDS spread ISDA-2003, di quelli ISDA-2014 e della relativa ISDA Basis per l’Italia. Balza subito all’occhio il jump verificatosi nell’ultimo mese nel corso del quale la differenza tra CDS-2014 e CDS-2003 è passata da 20 a 40 punti base, con un incremento del 100%.
Figura 1
Il dato francese è ancora più schiacciante. Come mostra la Figura 2, nel mese di febbraio l’ISDA Basis relativa ai CDS della Francia è salita da 3 a 24 punti base: una variazione percentuale del 700% che rispecchia la preoccupazione dei mercati per le elezioni ormai alle porte.
Figura 2
Per le settimane che ci separano da qui al voto francese i mercati manterranno gli occhi puntati su tutti gli sviluppi della complessa sfida elettorale che si sta svolgendo oltralpe e c’è da attendersi che il trend decisamente rialzista dell’ISDA basis rifletterà fedelmente la volatilità proveniente dai continui aggiornamenti dei sondaggi elettorali. Un’ulteriore conferma viene dall’aumento dei volumi netti dei CDS in essere riferiti alla Repubblica Francese. La Figura 3 indica che da già da metà dicembre è in corso una dinamica rialzista, con aumento di oltre 320 miliardi di euro nei nozionale netto dei contratti outstanding.
Figura 3
Ovviamente un timore più che fondato è quello che un eventuale Frexit possa avere ripercussioni ben più devastanti del Brexit sulla tenuta dell’Europa e dell’euro soprattutto. L’effetto-contagio, infatti, è dietro l’angolo, ed è una delle componenti principali della sopra descritta evoluzione della Basis anche per la Repubblica Italiana. Del resto, nessuno è completamente immune dal possibile effetto-domino di una secessione francese; persino per la Germania mostra trend simili a quelli di Francia e Italia specie in termini di incremento percentuale, fermo restando che in termini assoluti l’ISDA Basis tedesca è tuttora risibile, intorno ai 5 punti base. Anche per la Spagna a febbraio il differenziale tra CDS-2014 e CDS-2003 si è allargato, sebbene in modo più moderato rispetto agli altri Paesi.
L’evidenza empirica sin qui illustrata sul differenziale tra CDS-2014 e CDS-2003 si ripresenta con dinamiche del tutto simili anche sui Quanto Spread, cioè la differenza tra il prezzo di un contratto CDS (ISDA-2014) riferito a un emittente sovrano dell’Eurozona denominato in dollari americani e il prezzo del medesimo contratto denominato però in euro. Infatti, qualora si verificasse la ridenominazione di un debito emesso da un emittente sovrano della zona euro, è ragionevole attendersi che i CDS espressi in euro potranno offrire solo un minimo ristoro agli investitori, e senza dubbio meno di quello offerto dai CDS denominati in dollari.
Le Figure 4 e 5 permettono di apprezzare questo fenomeno rispettivamente per Italia e Francia, ponendo a confronto l’andamento del Quanto Spread e dell’ISDA Basis.
Figura 4
Figura 5
Un discorso a parte va fatto per la Germania. Al momento l’eventualità di uno scenario di ridenominazione del debito è etero-indotta dato che difficilmente l’Euro sopravvivrebbe al Frexit. La Germania, quindi, tornerebbe al marco, una moneta che avrebbe ottime chances di apprezzarsi: il portatore di un Bund vedrebbe ripagato il proprio investimento in valuta forte realizzando così un profitto in conto capitale. Uno sguardo ai dati conferma questa view. La Figura 6 mostra come nelle ultime settimane lo spread tra l’EONIA a 2 anni e il titolo di Stato tedesco di pari scadenza (Schatz) si sia allargato sensibilmente, fino a toccare quota 60 bps. In particolare, l’Eonia è rimasto abbastanza stabile, mentre il rendimento dello Schatz a 2 anni è sceso di circa lo 0,6%, arrivando quasi a -1% (cfr. Figura 6). Per inquadrare correttamente questa dinamica occorre innanzitutto ricordare che dal 16 gennaio la BCE ha rimosso il limite di rendimento minimo del -0,4% sui titoli acquistati nell’ambito del Quantitative Easing. La rimozione di questo vincolo ha ovviamente aumentato la domanda di titoli tedeschi a breve scadenza, per via della loro inclusione nel paniere dei bond ammissibili nel programma di acquisti della BCE. Ma, data la scarsità di Schatz sul mercato (c.d. rigidità dell’offerta), l’incremento della domanda è traslato sui prezzi, con conseguente crollo dei rendimenti impliciti. A onore del vero va osservato che questo crollo si è compiuto specialmente nel mese di Febbraio, il che indica che con tutta probabilità la maggiore domanda non proviene solo dal QE. Piuttosto sono gli operatori professionali che, consapevoli dell’elevato rischio di ridenominazione associato alle elezioni francesi, preferiscono impiegare la loro liquidità in titoli tedeschi dato il premio da ridenominazione connesso all’eventuale ritorno al marco.
Figura 6
I mercati non mentono. Mentre gli investitori istituzionali cominciano a blandire madame Le Pen in cerca di nuovi, favorevoli accordi e comprano titoli di Stato tedeschi come bene rifugio accontentandosi di rendimenti sensibilmente sotto lo zero, e mentre i tedeschi spazientiti dalla reflazione trasformano in pretese le richieste di un’interruzione del QE, l’Italia deve evitare di restare col cerino in mano. Chissà se la nostra classe dirigente sarà all’altezza della sfida.
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