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A proposito di trivelle, referendum, facebook, cinema e nulla di tutto questo

19 Aprile 2016

Bisognerebbe fidarsi delle parole meno che delle bombe. Perdere le parole per strada è un crimine tutt’ora non perseguito, una licenza concessa che degenera spesso in un linguaggio comune fatto di quanto alla rinfusa si è raccolto malamente per strada. Parlare oggi è spesso come riempirsi la bocca del fondo del letto di un fiume, dare spazio agli avanzi spigolosi di un’emotività dispersa tra le fratture di una comunità spezzata, di un pensiero civile abbandonato a se stesso da molto tempo.

Se in Italia la retorica pubblica e politica vive dell’ipocrisia di un presunto istante da sempre preferito ad un tempo contemporaneo questo è dovuto anche ad una costruzione di comunità che non è mai stata realmente capace di comprendere, ma solo di contenere e alla peggio comprimere: i compressi leader democristiani e gli incompresi dirigenti comunisti.

L’evoluzione di un Novecento desueto già nel momento in cui si guardava allo specchio sta in certi isolotti galleggianti dispersi al largo in cui la lingua da collante è divenuto l’elemento divisivo e dunque rassicurante di una singolarità ormai totalmente conformista: nulla da dire, ma l’ansia perenne di riconoscersi in un Io, che sia anche un altro poi non importa.

Le parole divengono così l’assurdo vociare di una relazione perenne in cui la nave dei folli prende il largo garantendo ad ogni suo passeggero spazio e autonomia in un nome di una relazione e per certi versi di una deistituzionalizzazione che prendono la forma della loro stessa antitesi. La follia ha dismesso la camicia di forza e il doppiopetto in favore di abiti più morbidi ed informali, le braccia libere aiutano ad argomentare anche se chi ascolta non c’è più e la voce si fa sempre più stridula. Nessuno ci fa più caso.

Il vento riflette le parole senza più riuscire a deformarle, troppo dure, troppo precise rispetto all’inconcludenza dei nostri cuori privati di amori e di storie. Le parole girano a vuoto e colpiscono e fanno più male di prima, ma il loro effetto rimane nullo. È solo polvere dispersa per una strada in cui folla e deserto si alternano senza possibile alternativa.

Le parole sono murazzi di cemento che non fermano l’acqua, ma spezzano le onde, interrompono la corrente. Governate dai social network le relazioni vivono così di parole che ne sono al tempo stesso la loro censura: le relazioni esistono, ma le parole sono sempre di mezzo a intralciare ogni evoluzione. L’esercito che illude di realizzarle è il medesimo che impedisce ogni ulteriore contatto, ogni possibile forma di condivisione. È possibile relazionarsi dunque senza parole? Tanto più ora che siamo riusciti a farlo senza i corpi? Arrivano i barbari, si diceva e non si è mai capito chi fossero, ma ora che abbiamo perso le parole per lo meno quelle che dicono, non ci resta che tacere.

Rimanere zitti per assolvere ad un esercizio di realismo banale quanto desolante, un esercizio di coscienza in cui ritrovare quella forma di comunità che è alla base di una forma di condivisione che dovrebbe allertarci e si spera risvegliarci da un sonno fatto di muri, ostacoli, lavori forzati e burocrazia che nella realtà non fa altro, da sempre che renderci liberi (dalla nostra libertà).

Abbiamo elaborato parole perfette che ormai poco si adeguano ai nostri corpi assenti, ad un tatto che fatica a capire, da quanto è stato isolato e abbandonato a se stesso. Si parla per lo più da soli strafatti di frasi fatte con occhi allucinati e pensieri abbandonati chissà dove. Là dove stavano i desideri ora ci sono casse piene di rimpianti e di malinconie per cose che non sappiamo più vedere, capire e soprattutto a cui non sappiamo più dare forma.

Privi di forma ci arrovelliamo con parole inutili dunque inseguendo una visione – qualunque essa sia – che non abbia però proiezione alcuna, ma che sia immersa nei nostri occhi. Il futuro è una sinapsi con noi stessi senza più parole, ma giusto con qualche espressione. Facebook verrà soppiantato dal cinema muto, i nostri ricordi combaceranno con le nostre speranze (senza più alcuna distinzione) e l’espressione triste di Buster Keaton sarà la nostra felicità fraintesa, fino alla fine, fino al nostro spegnimento. Click.

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