Internet
La scomparsa delle storie e dei giornali. In gloria della cronaca
Duecento morti in un istante soltanto, che a volte nemmeno il terremoto. Duecento morti, che nella nostra storia non c’è quasi paragone, se non rimontando al passaggio dei nazisti: Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, le Fosse Ardeatine. E invece eccoli a Bagdad. Duecento morti, dunque, ma notizie poche.
Anzi pochissime, ché son luoghi lontani, quelli, e le persone hanno facce diverse. Tuttavia, anche da quella parte del mondo si scappa e poi, bene che vada, si finisce parcheggiati in un campo, al di là di una rete, aspettando non si capisce più neppure cosa; sperando di sparire in qualche baracca lì dove la città s’è oramai slabbrata, o di farsi risucchiare dalla campagna e da città mobili che inseguono la raccolta di pomodori, arance, kiwi, come nuovi Okies, l’Italia come fosse la California di «Furore». Ma oggi non c’è Steinbeck a raccontarlo, non c’è Dorothea Lange a far fotografie, e non c’è un Walker Evans ma nemmeno un Dos Passos. E se ci sono – e, peraltro, ci sono, e sono in tanti! – non c’è mai spazio sulle pagine dei giornali: non per quelle storie non per quelle persone, non per chi le vorrebbe raccontare.
Sapere le storie di quelle persone ci costringerebbe a saperli persone. Ma così, senza storie, queste persone restano invisibili e restano invisibili anche le ragioni per le quali uomini e donne scappano. Non esistono. Semplicemente, non sono notizie. Non valgono quanto i retroscena su ogni pensiero a margine comunque intercettato in Transatlantico, ché di questo, invece, sono riempiti i giornali, i quali, però, nessuno legge più.
Ecco: poiché la notiziabilità definisce soprattutto noi stessi, racconta dei nostri interessi, prima ancora di suggerire a chi mette le notizie in pagina quali notizie scegliere in base al presunto gusto del pubblico dei lettori, la circostanza della progressiva e ineluttabile scomparsa dei lettori dovrebbe suggerire anche qualcosa a proposito dei criteri di notiziabilità. Ma non accade e, anzi, quegli stessi che riempiono i giornali di piombo che non si fa leggere poi spiegano seriamente che però la responsabilità della caduta di interesse è soprattutto di internet: internet ruba lettori, internet è gratis, internet è tutto, internet divora tutto.
E sia: c’è internet. Ma la sensazione è che i giornali non li si legga più soprattutto perché sono diventati arroganti e davvero poco interessanti giacché se la realtà t’assedia – una realtà che sta trasfigurando il mondo che conoscevamo, che sta esaurendo ogni punto di riferimento al quale abbiamo provato e ancora proviamo ad aggrapparci per non affondare anche noi – se insomma accade tutto questo e tu la realtà non la osservi e non la racconti, preferendogli l’ultimo sospiro dell’ultimo dei parlamentari, ecco che allora finisci per collocarti fuori dalla realtà, asserragliato nei tuoi quartieri, irreali anch’essi e assediati da un mondo che alla fine rischia davvero di farsi brutto sporco e cattivo e ti si divora.
Difficile, allora, pretendere d’improvviso di raccontare la periferia, magari affidandosi alla firma di chi – pur grande firma, per dire – non ne conosce la geografia né le facce, ché mai, prima d’esservi spedito per il pezzo, si erano attraversate quelle strade infami d’una città che a loro non sembra la stessa nella quale essi stessi abitano.
Ho smesso di chiedermi perché i giornali si siano chiusi al mondo quando ho smesso di scrivere ogni giorno per i quotidiani. Ho pensato che, se i giornali si son fatti così disanimati, quelle storie di persone e di luoghi relitti e laterali si potevano scrivere nei libri. Così faccio adesso. Ma non basta, non basta mai. E comunque servirebbero davvero i giornali.
Servirebbero più che mai anche soltanto perché, raccontandone le storie, potremmo riconoscere delle persone in quei duecento morti di Bagdad o nelle migliaia che giacciono senza storia sul fondo del Mediterraneo, e negli schiavi che raccolgono i nostri pomodori e, infine, persino in noi stessi.
Saranno le storie a liberare quei morti e quegli schiavi e a libere noi stessi. Sarà il racconto di quelle storie, sarà la cronaca a rifarci umani, se la cronaca riprenderà lo spazio che gli spetterebbe nello sfoglio dei quotidiani, oramai occupato stabilmente da noiosi retroscena, volto del potere che il potere mostra benevolo al lettore poiché questi se ne senta parte, genere ch’è la deriva del giornalismo quando il giornalismo, fattosi corsaro da pirata che era, e infine esausto, «ammicca, strizza l’occhio, cammina molleggiando sulle gambe, i pollici infilati nelle tasche e l’aria spavalda di chi cerca un posto al tavolo migliore nei ristoranti del centro».
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