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Il non partito di Pisapia
Sul merito dell’iniziativa politica di Giuliano Pisapia – il Campo Progressista – ho già scritto in passato; ma l’intervista che ha concesso a RepTV mi ha fatto nascere qualche perplessità anche sul metodo.
L’ex sindaco di Milano insiste sul fatto che il suo non sarà un partito (perché “sarebbe contrario al mio modo” e poi “i partiti oggi non hanno quell’appeal, secondo i sondaggi hanno un livello di fiducia del 3%“), ma vuole diventare una “casa” per quel mondo di centrosinistra – “sindaci, amministratori, centri culturali” – che non si riconosce nei partiti attuali.
E’ però chiaro che l’operazione di Pisapia non è di tipo culturale: ci saranno le officine delle idee per la stesura del programma, ma lo scopo principale è avere un ruolo di rappresentanza parlamentare e soprattutto di governo (“voglio federare un nuovo centrosinistra per non abbandonare il Paese alla destra o al Movimento Cinque Stelle“).
Di qui l’ambiguità: con quali meccanismi verranno selezionate le idee da inserire nel programma tra le tante, forse non tutte compatibili, che emergeranno dalle officine? Chi sarà, nel non partito, a porre i “paletti” per le possibili alleanze e a scegliere i candidati?
Le anime belle obietteranno che l’importante sono i contenuti; i nomi e i programmi elettorali verranno dopo. Sono pienamente d’accordo: ma è essenziale che le procedure per deciderli siano chiare e condivise fin dall’inizio o si rischia che l’asino caschi proprio sul più bello, cioè al momento della formazione delle liste; e queste procedure, comunque le si vogliano chiamare, sono nella sostanza lo statuto di un partito.
Schifare la “forma partito” è molto di moda, da Mani Pulite in avanti: non lo era quello di Berlusconi; non lo è il M5S; persino i fuoriusciti del Pd, frammenti del suo organigramma, si definiscono pudicamente “Movimento” (anche se, per ora, l’unico movimento percettibile è lo spostamento dei parlamentari da un punto all’altro degli emicicli di Camera e Senato). Ma ammantarsi dell’aura del “civismo” può diventare un trucco per nascondere la polvere dei dissensi sotto al tappeto, per camuffare una macchina elettorale messa al servizio di un autoproclamato leader e dei suoi cooptati o per ingentilire un’ammucchiata di ceto politico in cerca di seggi parlamentari.
Spero che i tanti che – a dire di Pisapia – si stanno avvicinando con entusiasmo al Campo Progressista siano consapevoli di questi rischi e che qualcuno intenda mettere il problema sul tavolo. Certamente la costruzione di un partito è un lavoro lungo, poco affascinante e complicato, soprattutto se il tempo a disposizione è poco (anche per questo sarebbe meglio che le fasi fondative non avvenissero in vista delle elezioni…); ma è l’unico modo per garantire che le idee di ciascuno abbiano una chance democratica di affermarsi.
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