Società
13 novembre 2015: attacco a Parigi e alla civiltà europea
Il 13 novembre. Un’altra data di quelle che entrerà nei nostri calendari del dolore, dei simboli del terrorismo che ci attacca nel cuore del nostro essere europei e occidentali. Come il 7 gennaio 2015 di Charlie Hebdo, l’11 marzo 2004 della strage di Atocha a Madrid, il 7 Luglio del 2005 di Londra e, naturalmente, l’11 settembre del 2001, quel giorno in cui la contemporaneità delle nostre paure iniziò. Per arrivare fino a questo 13 Novembre del 2015, in cui la prima conta dei morti, a Parigi, è salita progressivamente oltre 100 morti; al momento in cui scriviamo gli ostaggi sono decine; i nuclei sicuramente individuati in cui i terroristi hanno colpito sono già sicuramente tre, due sono stati attacchi suicidi, altri attacchi sono stati realizzati attraverso ordigni. Un vero atto di guerra coordinato, preparato, organizzato e infine realizzato. Il presidente francese Hollande è stato scortato rapidamente in luogo sicuro, mentre è esploso il caos allo stadio, poco lontano dall’epicentro degli attacchi, dove giocavano la nazionale Francese e quella tedesca. Le grida “Allah”, prontamente riportate e ovviamente in attesa di verifiche e approfondimenti, sembrano la tetra firma del terrorismo di matrice islamica.
Per l’ennesima volta, ma con proporzioni che spaventano per dimensione dell’evento, per sensazione di forza di chi attacca e di debolezza di chi subisce, ci confrontiamo dunque con un episodio terroristico che colpisce l’Europa nel cuore della sua capitale fondativa e, più in generale, la modernità occidentale proprio nella città, nella nazione, che l’ha fondata su una rivoluzione laica, egualitaria e liberale. È un episodio i cui contorni capiremo meglio, forse, nelle prossime ore, nei prossimi giorni. Ma già ci insegna qualcosa, ci impone riflessione e comprensione della realtà. Impone anche a noi, progressisti, liberali, laici, inclusivi, riflessioni dolorose, e uno sguardo sul futuro e sulle politiche lucido, laico e risoluto.
Quel che è successo a Parigi, anzitutto, presenta tratti di novità rispetto al passato recente che meritano, anche adesso, a caldo, di essere sottolineati e compresi. Rispetto all’episodio più recente, quello che a inizio anno ha travolto giornalisti e disegnatori del giornale satirico Charlie Hebdo, il salto di qualità è brutale ed evidente. Quella volta il terrorismo colpiva apertamente, violentemente, spietatamente, un nemico dichiarato del fanatismo religioso di ogni sorta, ed in particolare di quello islamico. Si colpiva, insomma, chi – nella logica fanatica del terrorista – aveva per primo dichiarato una battaglia, si era dichiarato coraggioso avversario, aveva rivendicato esplicitamente il diritto al conflitto. Questa volta no. La scena di Parigi illumina – tetramente – una realtà diverse. Le vittime del 13 novembre 2015 sono cittadini qualsiasi, la cui responsabilità era quella di vivere, da occidentali qualsiasi, un venerdì sera parigino. Sia chiaro – e lo specifichiamo solo per scrupolo estremo, nei confronti dell’obiezione disattenta o in malafede – che non vogliamo relativizzare né la gravità né l’inaccettabilità di quanto successo a gennaio a Charlie Hebdo. Non è meno grave, non è meno sfregiante dei principi che fondano l’Europa, quanto successo a gennaio. Ma i fatti del 13 novembre segnano un passaggio di minaccia generalizzata spaventosa, e che non si può trascurare. Il messaggio non è, non è più: “state zitti e non offendeteci”. Il messaggio diventa – o torna ad essere in maniera chiara -: “Abbiate paura ovunque, comunque, non state tranquilli in casa, in strada, al bar, al ristorante, allo stadio. Non state tranquilli, con noi non potete stare tranquilli da nessuna parte”.
Naturalmente, l’inno alla chiusura dei confini, all’attacco frontale all’Islam, è stato prontamente recepito e rilanciato dagli imprenditori politici della rabbia, della paura, dell’islamofobia. Quel che non dicono e non diranno – e qui sta il secondo elemento di riflessione che ci sentiamo di diffondere subito, a polveri ancora sospese – è che con ogni probabilità il concetto stesso di “confine” mostra, oggi definitivamente, la sua inutilità. Non sappiamo ancora abbastanza, anzi non sappiamo ancora nulla, ma è ragionevole immaginare che il “confine” da difendere non sia, non sia più, quello che divide la Francia o l’Europa dal resto del mondo. Scopriremo nei prossimi giorni, come già tante volte in passato, che la rabbia sorda, l’odio irriducibile con ogni lingua o regola delle democrazia, sia esplosa nel cuore e abbia accecato la mente (anche) di cittadini francesi, o di residente permanenti nel paese che fu dei Lumi. La testimonianza, una in più, di quel che non abbiamo saputo fare: del fallimento di uno o più modelli di integrazione. Un fallimento che rischia di essere il capitale del futuro di chi della paura ha fatto la sua impresa politica. Un’impresa scellerata alla quale non basta rispondere scuotendo la testa, alzando il sopracciglio, indicando l’ovvio sciacallaggio. Serve un ripensamento radicale delle ragioni dello stare insieme, un nuovo fondamento delle ragioni della cittadinanza, nuove regole, solide, per misurare l’adesione a standard di vita repubblicana. Impegni complicatissimi, eppure vitali, da mettere a fuoco a oggi per non dimenticarli domani, quando le polveri di questo infame attentato si saranno depositato.
Impegni concreti che non servono a vincere le elezioni, ma a salvare la nostra democrazia, e i fondamenti stessi della civiltà europea. Avrebbe dovuto essere il minimo della nostra vita: oggi è diventato un orizzonte epocale.
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