Innovazione

#ItalianDigitalDay L’Innovazione che Trasforma È Culturale. Il Resto È Fuffa

23 Novembre 2015

MILLE FAN, UNA TRIBÙ

 

In un agile manuale sulla Leadership pubblicato nel 2008, “Tribes“, Seth Godin, leader visionario a livello mondiale in tema di marketing, sostiene che un leader di una tribù (movimento, comunità) ha bisogno di mille fan per sentirsi realizzato umanamente e professionalmente, citando a sua volta un articolo di Kevin Kelly.


1000fans

 

Sempre nello stesso libro Godin cita l’oggi ex Senatore Bradley:

 

Anatomy of a Movement

 

Secondo Bradley un movimento (una comunità, una tribù) viene definito dall’esistenza di tre elementi chiave:

1) Una narrativa che racconta chi siano i membri del movimento e cosa vogliono costruire.

2) Un collegamento tra il leader e la tribù e tra i membri della stessa.

3) Qualcosa da fare – meno limiti ci sono meglio è.

Ho un amico che per molti anni ha lavorato nel mondo digitale per grosse multinazionali. Stanco della vita corporate, ha lasciato quel mondo costituendo la sua società di consulenza, facendo leva sul patrimonio di relazioni di alto livello coltivate nell’ultimo decennio. Ha reclutato professionisti validi in vari settori, che all’occorrenza propone a potenziali clienti per aiutarli nel loro business. Questo mio amico mi ha spiegato molto semplicemente come sceglie i collaboratori che rappresentano il suo brand nelle rapporti con i clienti. Devono avere due caratteristiche:

1) Devono essere altamente competenti nel loro settore.

2) Devono essere degni di trust. Fiducia.

“Se so che sono competenti e mi fido di loro, allora possono lavorare per me e rappresentare il mio brand all’esterno. Ci tengo alla mia reputazione.”

Ora alcune premesse:

Se scrivo questo pezzo e se negli ultimi 5 anni mi occupo di innovazione, sotto varie forme (consulente, ricercatore, facilitatore, connector) sicuramente lo devo alla mia curiosità, ma anche, in parte, a Riccardo Luna che in un articolo datato raccontando di Twitter catturò la mia attenzione e da lì, il mio motto “i percorsi non lineari sono i più affascinanti” ha trovato piena giustificazione. Lo devo anche a lui e gliene sono grato.

All’interno dell’associazione Digital Champions vi sono molte persone che stimo, umanamente e professionalmente, e che ritengo amici. Non ho ancora avuto modo di conoscerne alcuni di persona, ma la quotidiana frequentazione online me li fa considerare tali.

Vivo in un microcosmo – un loose network stimolante nel quale imparo ogni giorno qualcosa di nuovo e di pratico, composto da freelance, service designer, consulenti, organizzazioni liquide, distribuite, globali ma allo stesso tempo glocali, agile (nel senso della metodologia) e con un alto tasso di sperimentazione interna ed esterna: dentro Ouishare per esempio stiamo attualmente sperimentando la blockchain al fine di decentralizzare la governance, in particolare per creare un sistema concordato di algoritmi che stabiliscano il tipo di valore che apportiamo dentro l’organizzazione e la conseguente reputazione di noi membri. All’interno di siffatto microcosmo il feedback è essenziale – la nostra stella polare. Il feedback (costruttivo) tra pari e non pari è richiesto ed è dato con generosità e onestà intellettuale. L’obiettivo è quello di migliorare, che sia un workshop con un cliente, l’attitudine verso gli altri o il contenuto di un’attività. E in un ambiente nel quale sei circondato da gente stimolante, è automatico. Addirittura negli hackathon globali di service design che organizzo con altri amici in Europa utilizziamo varie tecniche per dare e ricevere feedback. Il tema del feedback è centrale in questa mia riflessione perché investe l’aspetto per me più deludente dell’intera operazione Digital Champion(s): la cultura. E quando parlo di cultura, mi riferisco al concetto di “culture” proprio del mondo anglosassone. (Mondo che vivo da 11 anni, eccetto due anni passati da startupper in Italia tra il 2010 e il 2012.) Ossia delle regole d’ingaggio, di solito stabilite dalla leadership o che emergono dal basso, che orientano e indirizzano i comportamenti dei membri di una comunità, di una tribù.

Il concetto di feedback in questa fase renziana cozza fragorosamente con quello di gufi.

 

 

Un leader che si rifiuta di ascoltare sarà alla fine circondato da chi non ha niente di significativo da dire. Aggiungo io da yeswomen e yesmen.

In assenza di un positivo attrito di idee e di visioni contrastanti di mondi e scenari, e quindi in assenza di diversità, le soluzioni approntate saranno sempre parziali e avranno un impatto basso: l’assenza di empatia e di confronto in fase di progettazione restringerà la portata delle soluzioni lasciando ai margini altri, importanti e latenti bisogni non soddisfatti.

 

Ultima Premessa:

Vista la mia cultura di feedback pensavo, l’anno scorso, di rispondere prontamente al coup de théâtre (l’associazione Digital Champions) dell’unico Digital Champion Riccardo Luna, spiegando perché non fossi convinto da questa operazione. Dato che sono abituato a dare feedback costruttivi però, non trovando una soluzione alternativa da proporre alla confusione semantica che avevo immediatamente percepito e che si é puntualmente generata, ho preferito aspettare. Lo faccio ora.

Digital Champions: La (Voluta) Confusione Semantica

Riccardo Luna, subito dopo la nomina a DC italiano, ha pensato bene di costituire un’associazione con propria partita IVA, di volontari (inizialmente cento) chiamata appunto Digital Champions. Obiettivo finale: costituire un esercito di ottomila digital champion. Uno per ogni comune.
Ha fatto un po’ quello che Godin spiegava precedentemente: non ha creato una tribù, un movimento, quello esisteva già. Riccardo è tanto un abile creatore di brand, quanto un abile storyteller. Ma questa volta, dotato di potere pubblico, ha esaltato sapientemente quelle tre leve sopra-descritte.  Ma a differenza del mio amico consulente ha avallato solo una cultura basata sulla fiducia e non sulla competenza. Questa è la critica che muovo qui.

Innovazione significa creazione di valore attraverso il cambiamento delle regole del gioco. Il cambiamento delle regole d’ingaggio. Il cambiamento della cultura delle organizzazioni, dei movimenti, delle tribù. 

Questo non è successo con Digital Champions, così come con il renzismo, e non solo. Su quest’ultimo parlo con cognizione di causa: ho sostenuto Renzi nelle primarie vere, quelle del 2012, qui a Londra, quelle che avevano un programma coraggioso, che spaziava da asili a innovazione. Quelle contro la ditta.  A distanza di tre anni vi é continuità col passato e con la ditta.

Qui sta il passaggio chiave: sia nel renzismo, sia nella piattaforma che in buona fede Riccardo Luna ha dato vita, sono mancati i paletti all’ingresso. La smania e la necessità di crescita rapida e su larga scala hanno fatto sì che chiunque potesse salire a bordo. A differenza del mio amico consulente, Riccardo non ha pensato che un esperto di innovazione sociale fosse non competente in tema di educazione e formazione digitale, o che fosse normale la boutade di Telegram a Genova. Se accetti persone non competenti metti a rischio il tuo brand. E la reputazione dell’intera operazione.

Altra ambiguità era data dalla natura volontaria dell’impegno, che sicuramente ha funzionato per molti, ma che ha creato zone grigie – in particolare per la presenza di soggetti che o sono già consulenti (e quindi si fanno pagare, giustamente, per i servizi che forniscono alle pubbliche amministrazioni) o rappresentano altre figure ibride tra pubblico e privato, con un piede in entrambe le staffe.

Non esistono digital champions, esistono membri dell’associazione Digital Champions – che è un’altra storia, totalmente differente. Non intervenendo su questa voluta confusione semantica sono state avallate tutta una serie di false rappresentazioni della realtà. Di seguito un paio, a un anno dalla costituzione:

e poi il resoconto dell’#italiandigitalday di ieri – ne parlo tra poco – su La Stampa a firma di @lucaindemini nel quale si parla di Digital Champions, ambasciatori dell’innovazione istituiti dall’Unione Europea.

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Nella scena dell’innovazione, così come in politica, la stampa tradizionale non riesce a stare al passo coi tempi e per varie ragioni (soprattutto per convenienza politica, ma anche per limiti da pensiero analogico) tende a falsare la rappresentazione della realtà: Uber e Airbnb sono paladini della sharing economy, i Digital Champions sono dipendenti pubblici, le startup ci salveranno dalla crisi. La realtà è un pochino più stratificata. Quando ci si trova di fronte un pubblico con inadeguati strumenti cognitivi, incapace di filtrare il flusso di informazioni che senza soluzione di continuità invade i nostri preziosi schermi a cristalli liquidi, allora o si riesce a creare una macchina di narrazione ben oliata che twitta lo stesso articolo nello stesso istante automaticamente da più account contemporaneamente, o si crea un ecosistema di canali/brand/eventi/”scarica la guida” diversi, riuscendo a tessere la tela di una narrazione onnipresente, avvolgente, a cui é difficile resistere, se l’obiettivo è cambiare per contrastare la miseria dell’attuale status quo.

Questa aggressiva forma di storytelling copre l’assenza di sostanza, di significati, di orizzonti nel medio-lungo periodo. L’assenza di una visione e di un piano sull’innovazione – in questo caso, ma non solo – digitale. L’assenza di una governance snella ed efficiente.

Un esempio è l’Atlante delle Fintech italiane: vengono indicate delle startup da seguire, ma chi legge non ha la possibilità di usufruire di parametri di valutazione adeguati per valutare il successo decantato dalla narrazione: non vengono citate le classiche metriche di valutazione delle startup, i ricavi generati, i ricavi per numero di dipendente ecc…La guida si riduce a una mera elencazione arbitraria di startup, facenti più o meno parte di circoli vicini.

Non si alza così il livello culturale dell’ecosistema, né non si esercita leadership trasformativa. Si applicano le stesse logiche di clan a un contesto che dovrebbe sfidare lo status quo ma che alla fine lo imita malamente.

Allo stesso tipo di ragionamento sono pervenuto alcuni mesi fa, dopo una conversazione con un amico (che spero di pubblicare presto) nella quale si è fatto riferimento anche al Movimento Cinque Stelle che, nato per invertire lo stato delle cose, sin da subito ha applicato le medesime regole d’ingaggio utilizzate dalla “casta”: leadership top-down, proprietaria del logo, del blog e del movimento. Un po’ come Riccardo Luna, proprietario del blog che ha aperto alla collettività che si è auto-convocata o meglio auto-cooptata.

All’interno dell’associazione ci sono tante persone di valore, che fanno attività di volontariato per pura passione. Alcune di loro si sono risentite delle critiche post-Venaria. Sono così coinvolte emozionalmente che non riescono ad analizzare in buona fede cosa è successo, con lucidità e distacco.

Tornando alla scelta di fare leva su una mole distribuita di volontari locali, all’inizio pensavo sarebbe potuta essere un’idea geniale – se dotata dei giusti contrappesi. Del resto, secondo Pentagrowth – un modello di innovazione esponenziale che utilizziamo con gruppi e vari tipi di organizzazioni, basato sulla creazione di modelli di business c.d. networked (che accelerano per via dell’effetto rete) – una delle cinque leve di crescita esponenziale è rappresentata proprio dall’abilitazione dei propri partner, e un’altra dalla legittimazione e responsabilizzazione (empowerment) dei propri utenti. Ora, se pensiamo ai DC locali come partner e/o utenti, creando un senso di proprietà condiviso della piattaforma DC, questa avrebbe camminato con le proprie gambe o con le centinaia, ora migliaia di gambe dei suoi membri. Sono 1386! Da un punto di vista di crescita esponenziale del brand, il ragionamento funziona. Ma senza contenuti e regole, e in un contesto di ambiguità semantica, tutti i buoni propositi iniziali si sono persi nell’auto-referenzialità, tratto distintivo del fantomatico status quo da soppiantare.

Il mese scorso parlavo con Rowan Conway, capo di Ricerca e Innovazione della prestigiosa e storica Royal Society of Arts: durante gli ultimi giochi olimpici che si sono tenuti a Londra, Rowan si é occupata della gestione dei volontari. Quando l’ho incontrata era appena rientrata da una visita in Giappone, nella quale aveva condiviso con gli organizzatori di Tokyo 2020 le lezioni apprese durante le olimpiadi londinesi.

The life of volunteering is largely played out locally. It is shaped by our local relationships, our participation positively affecting our sense of place and community. That sense of community and belonging may be as significant for volunteering as levels of income.

Quindi va benissimo il volontariato, ma la figura del volontario locale membro dell’associazione va progettata meglio. Inclusa, soprattutto, la fase di selezione.

#Italiandigitalday

La seguente immagine – e la relativa didascalia – descrivono esattamente il mio stato d’animo in tema di Italian Digital Day, più di molte parole.

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Ho percepito distanza, verticalizzazione, pomposità,  mentre sarebbero state auspicabili vicinanza, orizzontalità e informalità.

 

Mi ritrovo totalmente nei commenti di Stefano Epifani (sciabola) e Luca De Biase (fioretto, poi addolcito): ho trovato stucchevole il doping emozionale che scorreva a fiumi sui social network (e in sala) sabato alla Regia di Venaria. Come sempre ho visto tanta auto-celebrazione, ma non sono riuscito a trovare motivi e risultati per tale entusiasmo.  Rispetto i miei amici che erano lì, presi da un’onda emozionale nella quale rimbombava il “siamo una squadra fortissimi”, ma penso che questo doping emozionale rappresenti – ahinoi – un palliativo obnubilante tatuato nel dna italico. È più forte di noi, non riusciamo a creare comunità che si emancipano verso l’esterno, l’elemento settario prende sempre il sopravvento.

Sono rimasto particolarmente deluso dal resoconto di Guido Scorza, che ricordavo come un pungolo costante, dotato di onestà intellettuale, salvo poi scoprire il bias, ossia che fa parte del direttivo dell’associazione Digital Champions. Amen. Le sue descrizioni relative al bicchiere mezzo pieno sono semplicemente inconsistenti. Così come quelle sul bicchiere mezzo vuoto, che liquida laconicamente. Peccato.

N.B. Quando ho twittato non sapevo ancora della sua affiliazione al progetto DC.

Davvero poco. L’Italia non ha più bisogno di storytelling: ha bisogno di impatto. Di una cultura diversa, con nuove regole d’ingaggio. Di strategie, piani e di governance snelle, dotate di autorità e autorevolezza, che garantiscano la realizzazione degli obiettivi. Tutto il resto è fuffa.

Cosa suggerisco in tema di innovazione a Riccardo Luna e Matteo Renzi?

Riccardo Luna si è avvicinato un po’ alla soluzione, ma la natura pseudo-volontaristica del progetto creato ne ha pregiudicato i benefici. Prendendo come esempio un paese culturalmente e politicamente più maturo in tema di innovazione e di policydesign dell’ innovazione, il Regno Unito, bisognerebbe partire dalle basi culturali dell’ecosistema. L’anno scorso, per Rena e con La Fonderia Oxford raccontai al Kings’ College gli ecosistemi startup italiani e del Regno Unito, e l’elemento chiave emerso dalla mia ricerca era la presenza oltremanica di tutta una serie di broker dell’innovazione. Parlo di organizzazioni che, a vario titolo, nutrono, connettono, sostengono aziende, startup e amministrazioni pubbliche: Nesta, Innovate UK, Design Council e le varie Catapult (una sulle Future Cities, un’altra sulla Digital Economy, e altre sparse nel territorio). Nesta è un’organizzazione benefica, originariamente pubblica, oggi divenuta soggetto privato, nato da un fondo di 300 milioni di sterline proveniente dai ricavati delle lotterie. Innovate UK, ex Technology Strategy Board, un broker governativo con una dotazione di quasi 500 milioni di sterline, utilizza una forma di procurement strutturato e a mio avviso efficace per sostenere specifici settori che rientrano nella visione d’innovazione governativa. Le Catapult, parte di Innovate UK, sono dieci e non hanno sede solo a Londra e sono state citate recentemente da Cameron come appendici esecutive delle strategie governative sull’innovazione.

“The Catapult centres are a network of world-leading centres designed to transform the UK’s capability for innovation in specific areas and help drive future economic growth.

They are a series of physical centres where the very best of the UK’s businesses, scientists and engineers work side by side on late-stage research and development – transforming high potential ideas into new products and services to generate economic growth.”

A mio modestissimo avviso, e in seguito a varie conversazioni con innovatori che hanno lavorato o lavorano per organizzazioni governative di vari stati europei, per realizzare innovazione sistemica servono due condizioni:

1) La volontà politica, che a giudicare dall’articolo di Guido Scorza è totalmente assente nel Governo Renzi. In aggiunta, la soluzione che propone Scorza è deleteria: non ci serve un’ennesima commissione, cabina di regia o altro passatempo per gente annoiata.
2) Autonomia finanziaria e potere di veto legislativo: la cosiddetta “ultima parola” su tematiche specifiche. È stato così, ad esempio, che alcuni anni fa l’Helsinki Design Lab (oggi chiuso) riuscì a portare energia geotermica in un quartiere della città, bypassando ben 12 legislazioni e ponendo il veto su una commissione parlamentare che stava lavorando sul tema.

Quest’ultimo esempio é frutto di una conversazione privata che ho avuto con il direttore dell’Helsinki Design Lab, Marco Steinberg.

In mancanza di queste condizioni, ogni tentativo di innovare, sia esso banda ultralarga, l’anagrafica digitale o altro, sarà sempre un approccio non organico, non sistemico, ma sporadico.

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