Innovazione
Dalle piante tropicali ai big data, ecco l’ecosistema trentino dell’innovazione
Michele Barbera è il CEO di SpazioDati, startup dietro Atoka. Questo post è sponsorizzato da:
Quando si entra al MUSE (il museo delle scienze di Trento), si ricevono sempre un sacco di input interessanti. E in effetti credo che sia proprio questo uno dei fini dei grandi musei: stimolare il cervello di chi li visita. Tra le meraviglie del MUSE c’è la serra tropicale. Un lembo della foresta pluviale dei Monti Udzungwa nel cuore di una città alpina. Chi la visita ha davvero l’impressione di essere stato teletrasportato, come per incanto, in Tanzania: una vegetazione esotica e rigogliosa, l’aria calda carica di umidità, il suono dell’acqua che cade (nella serra c’è una piccola cascata) e le mille sfumature di verde.
Il contrasto tra l’interno e l’esterno della serra è notevole. Fuori può nevicare o piovere, ma grazie a sofisticate tecnologie e a un’infrastruttura eccellente (e infatti l’autore del progetto è Renzo Piano), in quell’angolo di MUSE crescono piante molto più familiari a un cacciatore hazda che a un coltivatore della Val di Non. Oltre a essere molto suggestiva, la serra (vera e propria Wunderkammer botanica) ci insegna una lezione importante: anche l’ecosistema più delicato e insolito può prosperare, purché gli si dedichi tempo, cura ed energie.
In Trentino dagli anni ‘80 in poi si è cercato di costruire un “ecosistema dell’innovazione”. Cioè quello che il sito della Open S3 della regione Piemonte definisce, in modo preciso ed esaustivo, “un ambiente dove si creano le condizioni abilitanti per la crescita competitiva e la trasformazione economica di un determinato contesto produttivo, economico e sociale”. Ancora, “tali condizioni concorrono alla realizzazione di un sistema favorevole alla creazione di impresa, allo sviluppo di nuove idee e alla circolazione della conoscenza, alla creazione e valorizzazione di nuove competenze […] L’insieme crea un contesto favorevole allo sviluppo di conoscenze e di innovazione che sono (o possono essere) capitalizzate dalle aziende e dalle istituzioni per realizzare nuovi prodotti e nuovi processi e per esplorare anche opportunità di applicazioni inattese per il mercato”.
Capito tutto? Faccio qualche esempio concreto. L’ecosistema dell’innovazione più noto al mondo è senz’altro la Silicon Valley, in California. Sotto il sole della Santa Clara Valley si ritrovano tutte le componenti di un ecosistema dell’innovazione come si deve: grandi centri universitari e di ricerca come Stanford e Berkeley, i laboratori di colossi dell’high-tech quali IBM, HP, Google e Facebook, un vitalissimo tessuto di startup e un grosso centro finanziario nelle vicinanze (San Francisco). Tutti gli startupper di questo mondo, incluso il sottoscritto, almeno una volta nella loro carriera vanno in Silicon Valley a cercare ispirazione, ottimismo e magari venture capitals.
La Silicon Valley non è sola. Altri ecosistemi dell’innovazione importanti, ma ovviamente meno grandi e famosi, si trovano ad esempio a Singapore, in Finlandia, in Israele (la startup nation che ospita la Silicon Wadi) e a Londra. Possono essere ICT, ma non necessariamente: pensiamo solo al distretto biomedico che si è creato negli anni Duemila tra Copenaghen e la Svezia meridionale. Degli ecosistemi ancora più piccoli si trovano poi anche in Italia, pur non essendo il nostro uno dei paesi più innovativi del mondo (nella classifica globale 2015 stilata da Insead, Cornell e Wipo, facciamo meno bene persino di due paesi piccoli come la Slovenia e il Portogallo).
Tra i nostri ecosistemi bisogna senz’altro citare quello di Milano, con i suoi grandi atenei e le sue aziende internazionali; quello di Torino, che ha i suoi punti di forza in atenei altrettanto grandi e in una galassia di grandi e piccole imprese innovative (delle telecomunicazioni, della meccanica ecc…); l’ecosistema di Pisa, dove sono presenti tre università e il polo tecnologico di Navacchio. Altre realtà importanti si trovano in Emilia-Romagna, a Roma e naturalmente nel sud, ad esempio il distretto aerospaziale pugliese. E poi c’è Trento.
I risultati che questo piccolo territorio di montagna può mettere sul piatto sono significativi. Ad esempio, è la provincia con il più alto numero di startup in rapporto alla popolazione. A Povo, la collinetta a est di Trento dove si concentrano le strutture dedicate alla ricerca IT (in primis dell’università e della Fbk), c’è anche uno dei sei centri dell’iniziativa Digital dello European Institute of Innovation and Technology, il “MIT d’Europa” voluto da Bruxelles per rendere più tecnologica e dinamica l’Europa. Tra le specialità IT locali vanno annoverate ad esempio la cybersecurity, la semantica e i big data (of course 🙂 Come in ogni ecosistema dell’innovazione che si rispetti, peraltro, anche il Trentino non sta concentrando tutte le sue energie su un solo comparto ad alta intensità d’innovazione: cresce anche la meccatronica, il turismo 2.0, il digital manufacturing, l’agrifood, i nuovi materiali.
Io non sono trentino, ma vivendo e lavorando a Trento ormai da quattro anni posso dire che questo territorio ce la sta davvero mettendo tutta per trasformarsi (tanto per restare in tema) in un grande “habitat del progresso”. Personalmente, sono sicuro che vincerà la sua scommessa. E di sicuro noi di SpazioDati qui ci stiamo trovando davvero bene.
Michele Barbera, autore di quest’articolo, è il CEO di SpazioDati
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