Innovazione

Tanti innovatori nel paese che non innova

25 Febbraio 2016

Michele Barbera è il CEO di SpazioDati, startup dietro Atoka. Questo post è sponsorizzato da:

spaziodati

 

Come tanti piccoli imprenditori tecnologici, anch’io devo spesso andare all’estero. E per molti aspetti ogni viaggio di lavoro in Svizzera, Regno Unito o California è un’esperienza bella e arricchente: nuovi contatti, nuove idee, nuove possibilità di business, e la gioia di operare in economie dove concetti come sales intelligence e lead generation B2B iniziano a essere noti anche ai non-addetti ai lavori. Purtroppo non c’è rosa senza spina. In occasione di queste trasferte ho spesso notato una certa sorpresa da parte dei miei interlocutori nell’apprendere che la nostra startup ha sede… in Italia.

Infatti all’estero è opinione diffusa che il nostro non sia propriamente un paese per innovatori. Soprattutto negli Stati Uniti e in Nord Europa, l’Italia continua a essere vista come una terra di genio e sregolatezza, dall’enorme potenziale ma alle prese con mille ostacoli e difficoltà. Dove è meglio aprire una trattoria piuttosto che una startup (per citare Arianna del film Boris: “La ristorazione è l’unica cosa seria in questo paese”). E anche se talvolta si tratta di opinioni fondate su pregiudizi inveterati, e su una conoscenza poco approfondita dell’Italia, i numeri ahimè sembrano dare ragione ai nostri critici.

Nella graduatoria dei paesi più innovativi del pianeta, l’Italia si piazza abbastanza male. O almeno, la sua performance non è in linea con il potenziale tecnologico e imprenditoriale di un paese che rimane (a dispetto di tutto) uno dei più ricchi e industrializzati del mondo. Nel Global Innovation Index elaborato da Insead, WIPO e Cornell, il nostro paese è a pari merito con il piccolo Portogallo. Su 50 paesi esaminati dal Bloomberg Innovation Index, l’Italia è al 24° posto. Infine, secondo il World Economic Forum, il nostro paese è 38° per qualità degli istituti di ricerca, 39° per capacità delle imprese di innovare, 59° per la collaborazione tra università e imprese, 130° per appalti tecnologici.

Né Milano né Roma sono tra le città internazionali con la maggior concentrazione di venture capital. Anzi, a dirla tutta, le due capitali brillano poco non solo a livello mondiale, ma anche europeo. Fanno meglio di Roma e Milano sia metropoli influenti come Londra, Parigi, Mosca o Copenaghen-Malmö, sia città più periferiche come Bristol o Karlsruhe. Ancora, a differenza di paesi come la Svezia, la Svizzera o i Paesi Bassi (per non parlare di Germania e Francia) l’Italia non vanta né giganti tecnologici capaci di trascinare porzioni importanti di tessuto produttivo, né una particolare sensibilità ai temi dell’innovazione e del progresso scientifico. Pure le infrastrutture sono carenti, come dimostra l’esistenza solo “relativa” della banda larga, o il numero non troppo esaltante di utenti di internet (secondo il WEF, in proporzione Grecia e Azerbaigian fanno meglio di noi).

Hanno dunque ragione i miei colleghi americani e inglese, a pensare che non si possa lanciare una startup in Italia? No, almeno non del tutto. Il punto è che l’Italia è assai più complessa e stratificata dei suoi omologhi europei. Anche se nel complesso non è un paese per innovatori (specie se confrontata con le altre economie avanzate), a sud delle Alpi gli innovatori non mancano, così non mancano i territori che stanno provando, seriamente, a fare innovazione. Il numero di startup sta lentamente aumentando, e anche i management delle aziende stanno sviluppando un nuovo sentiment, più attento all’innovazione e alla R&D.

Qualche giorno fa mi sono imbattuto in quest’intervista a un ricercatore (e imprenditore) d’eccellenza, Alessandro Sannino, chief project scientist di un’azienda di biotech quotata al Nasdaq, Gelesis (lui è co-inventore della tecnologia Gelesis100). Scienziato napoletano con un piede negli Stati Uniti e l’altro in Puglia, Sannino è un esempio fantastico dei tanti innovatori che l’Italia, la terra di Leonardo da Vinci e Guglielmo Marconi, continua a sfornare.

Nell’intervista Sannino parla di un’Italia dotata di un enorme potenziale umano. Di “giovani, brillanti, competenti e determinati”. Di “giovani e non-più-tanto-giovani ricercatori che, nonostante il precariato, la mancanza di risorse, l’inadeguatezza delle strutture e gli assurdi vincoli amministrativi, vanno avanti con un entusiasmo ed una determinazione inarrestabili”. Certo, gli ostacoli non mancano, a cominciare da una mentalità vecchia e autolesionistica. Ma a suo parere, l’Italia sta cambiando. Fra non più di trent’anni, dice, “non diventeremo un’altra California. Saranno i californiani a voler essere come noi”.

Io condivido l’ottimismo di Sannino. Personaggi come lui ci fanno capire che per l’Italia non si è detta l’ultima parola. Anzi, la partita vera è ancora tutta da giocare. Io lo sto imparando quotidianamente, soprattutto grazie ai nostri clienti; infatti le aziende che utilizzano Atoka (sia giovani realtà tech come questa, questa e questa, sia piccole multinazionali del manifatturiero come questa) ci insegnano che il nostro paese ha riserve di creatività e innovazione ancora tutte da esplorare. E da raccontare.

In un post di qualche tempo fa parlavo del piccolo ma dinamico ecosistema dell’innovazione che c’è in Trentino. Ebbene, di ecosistemi così ne stanno nascendo in tutta Italia, anche grazie al supporto dello Stato e a una crescente sensibilità da parte dei legislatori. Certo, non sempre questi sforzi sono coordinati, e l’elemento locale rimane una variabile di rilievo. Ma l’Italia è un paese di campanili, una terra di localismi, piccole imprese, nicchie di talento, e questa sua natura non cambierà certo nel giro di qualche anno.

Da Pisa a Varese, da Milano a Torino, dalla Campania all’Etna Valley, l’Italia è un arcipelago di PMI, startup, università, PA, centri di ricerca, associazioni di categoria, cittadini, fablab e grandi aziende che cercano di fare innovazione. Non si tratta sempre di aree ad altissima intensità tecnologica: ad esempio l’Artisan Valley, che dalle Dolomiti arriva fino al mar Adriatico, è una storia che nasce soprattutto da un cambio di mentalità, da una nuova cultura. Il calzolaio che impara a usare lo scanner 3D o rinnova il sito web non sta usando chissà quali tecnologie fantascientifiche, ma sta re-intepretando il suo sapere in un modo innovativo. Anzi, geniale.

 

Michele Barbera, autore dell’articolo, è il CEO di SpazioDati

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