Grandi imprese
Le istituzioni e il rispetto degli accordi sull’acciaieria di Piombino
In una lettera aperta del 17 luglio pubblicata sul Tirreno, Mauro Faticanti (responsabile Fiom per la siderurgia) lamenta le mancate promesse di Rebrab sull’acciaieria di Piombino (di cui abbiamo parlato qui).
Nel nuovo piano presentato in Regione Toscana per l’acciaieria, Rebrab prevede di impiegare al 31 dicembre 2016 solo 750 persone. Con la solidarietà al 50%, questi sono equivalenti a 1.500 dipendenti rispetto ai 2.160 promessi. Quindi circa 660 esuberi per l’acciaieria. Questa è la principale rimostranza di Faticanti, che giustamente fa presente alle istituzioni che non si può far finta di niente.
Quindi Rebrab fa un passo indietro e allinea il proprio piano industriale a quello che aveva presentato l’indiano Jindal. Grazie a questa promessa insostenibile, sindacati e istituzioni spinsero affinché Rebrab venisse ammesso ad una procedura ormai chiusa e vincesse. Ad un importante acciaiere indiano, dotato di risorse finanziarie e di acciaio di qualità adeguata per alimentare i laminatoi fu preferito un commerciante di frutta e verdura algerino. Cose che accadono troppo spesso in Italia. Non è chiaro in che modo il legittimo interesse dei lavoratori e della comunità sia stato tutelato nel contratto che ha ceduto l’azienda a Rebrab. A livello locale parlano di una “multa” da 150 milioni di euro prevista nel contratto. Quindi nessuna risoluzione del contratto. Se fosse così, si unirebbe il danno alla beffa, perché ottenere il pagamento di questa somma appare alquanto difficile. È inutile inserire un meccanismo di tutela, se poi lo stesso è inattuabile. La “multa” sarebbe una beffa, simile a quella del piano di Rebrab.
Il fatto che la promessa non venisse mantenuta era prevedibile: un’acciaieria come Piombino che chiude un altoforno e (se va bene) lo sostituisce con un forno elettrico, non può stare in piedi con il vecchio numero di dipendenti (un altoforno richiede moltissima più manodopera). Soprattutto se il mercato dell’acciaio non tira. Ed il porto non può credibilmente impiegare le restanti 1.400 persone. Quindi a chiunque avesse valutato oggettivamente i fatti, era evidente che sarebbe emerso un problema. Se un acciaiere serio, dotato di risorse, stima l’impiego di 700-750 persone (e gli italiani che avevano studiato l’acquisizione avevano stime inferiori a Jindal), non si può certo credere ad un commerciante di frutta e verdura (bravissimo nel suo mestiere che però non c’entra nulla con l’acciaio) quando dice che ne impiega il triplo. A pensarla bene Rebrab non sapeva quello che faceva. A pensarla male ha fatto leva sul sogno di persone disperate di salvare il lavoro. Chi doveva tutelare queste persone ed aveva le risorse tecniche per valutarlo, ha giudicato positivamente il piano di Rebrab ed ha deciso di procedere con la cessione a lui. Chi ha redatto il contratto ed aveva le risorse legali per farlo bene, forse non ha previsto le giuste tutele (aspettiamo di conoscere la verità in merito).
Un suggerimento per Faticanti: ora che il problema è evidente, diventa necessario smettere di sognare e rimboccarsi le maniche.
Smettere di sognare significa che non si può inseguire il sogno di impiegare in acciaieria tutto il vecchio organico, perché l’attività non starebbe economicamente in piedi. Meglio concentrare le richieste alle istituzioni su piani di investimento alternativi che consentano l’occupazione in altre attività.
Smettere di sognare significa anche capire se Rebrab i soldi li ha investiti e li investirà, perché l’attendibilità delle sue promesse è stata verificata fino ad ora e, come sul numero dei dipendenti impiegati, il riscontro non è stato positivo. Se non c’è un impegno certo e credibile di Rebrab ad investire, occorre rapidamente trovare una soluzione alternativa. In assenza di circolante, l’acciaieria non riesce a lavorare al ritmo necessario e questo comporta due danni gravi. Il primo è la perdita di clienti a vantaggio di altri concorrenti. Nel caso delle Ferrovie Italiane (RFI), che avevano dato un grande ordine a Piombino, si rischiava di perdere non solo l’ordine ma anche la certificazione necessaria a vendere binari ad altri clienti. Il secondo è che si accumulano perdite rilavanti. Anche svariati milioni di euro al mese. E si rischia quindi di chiudere definitivamente l’acciaieria, dicendo addio anche a quei 750 posti che oggi sembrano pochi.
Quindi se fossimo gli organi delle istituzioni preposti o i sindacati interessati, chiederemmo di vedere subito i conti a giugno 2016 di Aferpi, la società di Rebrab che ha acquistato l’impianto. Quante sono le perdite? Quanto è il capitale? È positivo? Quanti sono i debiti verso la procedura Lucchini per il circolante utilizzato e probabilmente non pagato? Vorremmo quindi sapere che Aferpi è solvibile e non è stata patrimonializzata indebitamente dalla procedura, che all’inizio le ha prestato il circolante. Capitale che oggi potrebbe essere stato bruciato dalle perdite eventualmente generate da una gestione dissennata. Se così fosse, i futuri versamenti di Rebrab servirebbero a compensare le perdite di questo periodo e a rimborsare la procedura. Questo primo utilizzo e la prospettiva reddituale negativa nei primi mesi di gestione sono oggettivamente un disincentivo a versare mezzi freschi nell’azienda. Anche per questo vorremmo vedere i soldi di Rebrab necessari a realizzare gli investimenti: depositati in Italia e legalmente vincolati in modo irrevocabile all’investimento stesso. A disposizione della autorità per riscuotere la “multa”.
Se Rebrab non adempiesse a quanto promesso, sono sicuro che i bravissimi magistrati a Livorno saranno felicissimi di occuparsi della vicenda. E credo che non sentiremo più parlare di Rebrab. Però questo non tutela i dipendenti di Piombino. Loro hanno bisogno che si smetta di raccontare fantasie e si adotti un piano reale, concreto, con risorse vere. Altrimenti i veri responsabili non andranno cercati in Algeria ma in Italia, tra i professionisti che fanno finta di credere a soluzioni belle da sentir raccontare, ma irrealizzabili.
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