Imprenditori

Giovani e sviluppo: alla politica interessano poco, all’impresa quasi per niente

12 Dicembre 2016

Giovani, soli e sfiduciati. Questo il ritratto dei “grandi elettori” del No allo scorso referendum secondo un sondaggio Demos-Coop oggi rilanciato da Ilvo Diamanti per Repubblica. Un popolo di elettori che ha sentito tradite dal premier Renzi – giovane e innovatore, stando al suo profilo – le proprie speranze di cambiamento.
Jobs act e Buona scuola per primi sono stati al centro di questa delusione collettiva, ma una domanda in questi casi è necessaria: il tema è soltanto politico? La politica infatti offre linee guida e strumenti per l’amministrazione, lo sviluppo, la vita del paese, ma questi strumenti (buoni o cattivi che siano) vengono poi utilizzati da chi costituisce attivamente il paese. Nella fattispecie un paese – l’Italia – in cui troppo spesso la fa da padrone il detto “Fatta la legge, trovato l’inganno”. Il caso dell’abuso dei voucher è forse l’esempio più lampante: uno strumento teoricamente nato per dare “definizione” alla prestazione occasionale, che nel nostro paese rappresenta nella maggior parte dei casi l’ampio mondo sommerso del lavoro in nero, trasformato in metodo di pagamento corrente di lavoratori assunti, in sostanza, a tempo determinato. Lo strumento era e resta imperfetto, certo, ma la responsabilità, almeno sui media, quasi mai ricade su chi “agisce” attraverso lo strumento, ovvero i datori di lavoro.

In Italia soffriamo una crisi nipote della gran madre “crisi globale”, ma figlia diretta di un’imprenditoria scarsamente interessata a concetti quali sviluppo, innovazione, crescita.

Di fronte al venir meno delle certezze di mercato molte imprese hanno preferito attuare una politica di mera sopravvivenza che, se in una prima fase di recessione può avere il significato di tutelare il progetto imprenditoriale e – di conseguenza – anche i posti di lavoro, sul lungo periodo costringe a nuotare in uno stagno sempre più piccolo. E gli stagni piccoli prima o poi si seccano. La fotografia del nostro tessuto imprenditoriale è abbastanza impietosa: il poco investimento fatto in ricerca, formazione, innovazione viene portato avanti dalle grandi imprese, che però rappresentano meno del 5% del totale su scala nazionale. Questo sparuto 5% investe in media 420 euro l’anno per la formazione del singolo dipendente, circa la metà del dato europeo di paesi più avanzati (in Belgio – ad esempio – si investono circa 1100 euro l’anno per dipendente). Le piccole e medie imprese (PMI) italiane poi investono ancora meno e questo investimento ricade in larga parte sul consolidamento di mansioni già presenti più che sulla formazione dei neoassunti o nell’innovazione delle mansioni.
Le PMI rappresentano il 95% delle realtà imprenditoriali italiane.
Il conto, quindi, è presto fatto. Se la maggioranza delle imprese non investe in formazione e sviluppo, di sicuro non ci sarà eccessivo spazio per una politica di assunzione di “giovani leve”, che necessitano fisiologicamente di formazione e sono il motore principale dell’innovazione. Ai giovani viene concesso lo spazio di un tirocinio formativo, che spesso nasconde non tanto formazione quanto un lavoro vero e proprio, concluso il quale ci si saluta con una cordiale stretta di mano. Se esistesse almeno un buon livello di dialogo fra enti di formazione e imprenditoria il problema potrebbe essere, almeno parzialmente, attenuato. Così però non è e, ancora una volta, il nodo non sta tanto nella struttura “obsoleta” di scuola e università italiane (che pure hanno i loro “debiti formativi”, per stare in tema, rispetto alla scarsa connessione con il mondo del lavoro), quanto nella mancanza di percorsi efficaci di orientamento e formazione post diploma/laurea.

La scuola deve insegnare insomma, poi qualcuno deve insegnare a fare.

Difficile farlo però se i dati in mano a chi di politiche di orientamento e impiego si deve occupare non vengono “letti” correttamente. Anni fa mi è capitato per lavoro di dovermi confrontare con i dati di occupazione forniti da una nota agenzia che si occupa di servizi post laurea. Stando alle loro statistiche buona parte dei laureati in materia umanistica con percorso triennale risultava occupato a sei mesi dalla laurea. Meraviglioso! Peccato che analizzando il dato emergesse che non vi era alcuna considerazione della “qualità” dell’occupazione (era occupato anche chi guadagnava 300 euro al mese, per capirci), nè per il nesso percorso di studi/impiego. Erano, insomma, in larga parte persone che “lavoricchiavano” in settori che poco o nulla avevano a che fare con il loro percorso di formazione.
Lavoro non qualificato derivante da cattivo orientamento, scarsa formazione, investimento in sviluppo da parte dell’impresa ai minimi. In che modo, stando così le cose, si può parlare di ripresa e “ripartenza”?

Alla politica insomma non interesseranno i giovani, ma neppure all’impresa e, di conseguenza, in un contesto di mera sopravvivenza, non interessa il futuro del paese.

Siamo molto lontani non solo dalla visione di Olivetti, che vedeva nella formazione culturale e nella realizzazione personale dei dipendenti il motore del successo di un’impresa, ma anche da quell’atteggiamento paternalistico, proprio di molte aziende, come la FIAT del boom economico, che quantomeno cercavano di “far star bene” gli operai perché avevano capito che chi sta bene si fidelizza e si ti fidelizzi lavori bene.
Si sopravvive, si galleggia e si tira avanti. Non stupisce dunque che i giovani si sentano soli, demotivati e guardino all’espatrio come sola soluzione alla loro “stasi” esistenziale. Per la politica dev’essere un problema urgente, ma deve esserlo anche e soprattutto per l’impresa. Perché potremo anche delocalizzare, cercare di far “rendere al meglio” risorse umane non formate, mal pagate e dequalificate, ma i nodi prima o poi vengono al pettine: è il mercato ed è la vita. La vita di un paese sempre più vecchio e di scarsa speranza.

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