Immigrazione
Razzismo: cosa può fare la scuola
La tragedia di Fermo è una tragedia annunciata. Da anni stiamo assistendo ad una sistematica azione di imbarbarimento della vita pubblica da parte di politici, giornalisti, opinionisti, che ha reso pubblicamente tollerabile ciò che altrove susciterebbe scandalo: il dileggio pubblico, il discorso di odio, la violenza verbale verso il diverso; una violenza che è inevitabilmente premessa alla violenza fisica. Un segnale inquietante sono stati gli insulti reiterati al ministro Kyenge. Il fatto che un persona nera, e per di più donna, facesse parte del governo ha fatto venire allo scoperto quel misto di crassa ignoranza, razzismo e fascismo di cui è composto buona parte del fondo – propriamente: la feccia – della sottocultura italiana. Quel che è disperante, è la difficoltà di contrastare il razzismo montante. E’ noto il bassissimo livello culturale degli italiani, l’incapacità della maggioranza della popolazione di orientarsi nel mondo in cui vive (secondo l’indagine PIAAC dell’OCSE meno di terzo degli italiani hanno le conoscenze e le competenze necessarie per vivere in una società complessa). Un cittadino ignorante è un elettore ignorante, e un elettore ignorante elegge una classe di politici rozzi, che manipolano le paure popolari, che alimentano il razzismo, che affrontano problemi complessi ricorrendo a misere semplificazioni. Un circolo vizioso che è difficilissimo spezzare.
Da insegnante, mi chiedo cosa può fare la scuola. Provo a dare qualche risposta, con la consapevolezza che non esistono soluzioni semplici, perché la scuola stessa – e questo fa parte del processo di imbarbarimento cui ho accennato – è sempre più indebolita, depotenziata, delegittimata, ridotta a logiche di mercato che nulla hanno a che vedere con l’educazione e la formazione critica dei cittadini.
In primo luogo, la scuola può evitare di essere razzista essa stessa. L’accusa di classismo, rivolta alla scuola italiana, risale almeno alla Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana. Ed è una accusa tutt’altro che ideologica, che coglie un fatto oggettivo. Basta entrare in un qualsiasi liceo o in un qualsiasi istituto professionale. L’affermazione che i licei sono scuole esclusivamente borghesi può forse essere discussa: troverete sempre il figlio di operaio che ha fatto il classico o lo scientifico ed è lì a dimostravi che non è così. Ma è piuttosto improbabile il contrario: l’istruzione professionale e quella tecnica sono prevalentemente riservate ai ceti economicamente svantaggiati, a quello che una volta si chiamava proletariato. Secondo il rapporto ISTAT La scuola e le attività educative (2012). “I risultati scolastici sono correlati all’estrazione sociale della famiglia di origine: quelli meno soddisfacenti si riscontrano più di frequente nelle famiglie in cui la persona di riferimento è operaio (il 41,3% ha conseguito il giudizio “sufficiente”), lavoratore in proprio o in cerca di occupazione (37% in entrambi i casi)”. Ora, questi dati si incrociano in modo eloquente con quelli riguardanti gli studenti stranieri. Secondo il rapporto del MIUR Alunni con cittadinanza non italiana. Tra difficoltà e successi, relativo al 2013/2014, solo il 3,8% degli studenti nati all’estero sceglie il Liceo classico, contro un 39,5 % che sceglie un professionale e il 38,1% che sceglie un istituto tecnico. Nel sistema scolastico italiano gli stranieri si collocano dove si collocano i proletari. In quella fetta di sistema scolastico che fin dall’inizio è stata pensata per formare il braccio della società, non la mente né la classe dirigente.
Benché questo suo classismo sia stato denunciato da tempo, la scuola italiana non riesce ad uscirne. Non è, bisogna dire, tutta colpa sua. Molto conta la percezione sociale dell’istituzione scolastica, dell’importanza dello studio, la propensione ai lavori intellettuali, l’influenza della famiglia e delle sue aspirazioni. Ma è innegabile che c’entri anche il lavoro di orientamento dei docenti. Chi scrive negli anni Ottanta, alla fine della scuola media, fu orientato verso l’istituto professionale, nonostante una chiara, evidentissima propensione per gli studi umanistici. Era difficile, a quei tempi, pensare un percorso diverso per il figlio di un operaio. La mia esperienza di docente mi porta a ritenere che a distanza di qualche decennio queste dinamiche classiste siano ancora ben radicate in molti contesti.
Non si può dire che le scuole non facciano il possibile per accogliere gli studenti stranieri. Spesso, a dire il vero, fanno anche l’impossibile, con le scarse risorse di cui dispongono: ma non è detto che si muovano nella direzione giusta. Molto spesso, l’unica preoccupazione è quella di mettere lo studente in grado di conoscere la lingua italiana. In molte scuole occuparsi degli stranieri vuol dire esclusivamente organizzare corsi di italiano per stranieri. Se lo studente è particolarmente in difficoltà, gli si può mettere la nuova etichetta di BES, alunno con bisogni educativi speciali, e gli si offre un comodo salvacondotto, che a dire il vero permette anche ai docenti di rilassarsi un po’. Cosa manca? Manca la differenza. E’ un percorso a senso unico, che porterà lo studente a italianizzarsi, nella migliore delle ipotesi, ma senza che la scuola abbia preso nulla da lui, dalla sua cultura, dalla sua identità. Manca lo scambio. Non è detto naturalmente che accada sempre. Non mancano esperienze di integrazione reale, non mancano forme di scambio e di arricchimento. Ma mi pare che la visione dominante, nonostante le decine di volumi di pedagogia interculturale che finiscono ogni anno sugli scaffali delle librerie, sia quella. Il crocifisso alle pareti è il simbolo di una anacronistica chiusura identitaria, l’ora di religione costringe fuori dall’aula gli studenti musulmani o comunque non cristiani, mentre un’ora di storia delle religioni aconfessionale o di etica civica potrebbe essere occasione di confronto e di scambio tra culture.
La chiusura della scuola italiana non è solo confessionale. Più in generale, è semplice miopia provincialistica. Si può uscire dal sistema scolastico italiano senza aver mai sentito nemmeno nominare capolavori della letteratura universale come il Mahabharata, ignorare tutto della straordinaria cultura cinese, non sentirsi minimamente ignoranti se non si sa chi è Murasaki Shikibu. Nella scuola italiana si studia la cultura italiana e un po’ della cultura europea, tutto il resto non interessa. Il messaggio implicito è che tutto ciò che non è italiano o europeo è ignoranza e barbarie.
E veniamo al punto decisivo: lo sciovinismo. Uno sciovinismo soft, sia chiaro, non siamo mica ai tempi del fascismo. Ma innegabile. A scuola si entra gradualmente, dolcemente nella rassicurante narrazione degli italiani “brava gente”, più portati per fare l’amore che per la guerra, il popolo che ha civilizzato l’Europa e il mondo con Dante e Petrarca, Leonardo e Lorenzo il Magnifico. Non si mancherà di vantare la grandezza della cultura europea di un Erasmo o di un Comenio. Lo studente sarà un po’ confuso quando si ritroverà di fronte all’olocausto, che fortunatamente riceve a scuola tutta l’attenzione che merita, e che è un pozzo di barbarie aperto nel bel mezzo dell’Europa; ma nessuno gli parlerà – o gli parlerà con i toni necessari: non come si spiega un paragrafetto del libro di storia – del terribile genocidio compiuto dai belgi in Congo, o delle atrocità del colonialismo italiano, della vergogna dello schiavismo, della violenza e della distruzione che l’Europa ha portato nel mondo in nome della civilizzazione.
Uscire da questa narrazione è il meglio che la scuola possa fare per combattere il razzismo. La visione scolastica, che se ne sia consapevoli o meno, è ancora quella dell’uomo bianco, e segnatamente del borghese bianco. La scuola può con assoluta buona fede affermare i principi della solidarietà, della fratellanza, dell’umanesimo, trasmettendo al contempo una visione che esclude o pone ai margini della civiltà tutto ciò che è fuori dall’Europa, così come può ignorare o minimizzare il grido delle vittime di ieri e di oggi, quando sono vittime del lato oscuro dell’occidente. e’ giunto il momento di fare i conti con la nostra ombra, con il nostro passato violento, guardare coraggiosamente nei nostri limiti: del resto, è quanto ha fatto la migliore cultura europea del Novecento, dolorosamente consapevole dell’intreccio di grandezza e miseria che caratterizza la storia del nostro continente.
Ma non si tratta solo del passato. Una delle accuse che gli studenti rivolgono più frequentemente alla scuola è quella di non metterli in grado di leggere il presente. Ed hanno le loro ragioni. Ci si difende ripetendo il mantra che studiare il passato è indispensabile per capire il presente. Che è vero, ci mancherebbe: ma non sufficiente. Per capire quello che accade in Medio Oriente fa sicuramente bene conoscere la distruzione di Gerusalemme da parte di Tito, ma occorre anche conoscere la storia della formazione dello stato di Israele, la storia recente dell’Iran, con il colpo di stato del ’53, e le guerre contro l’Iraq, e così via. Un lavoro che si fa sporadicamente, magari a ridosso dell’ennesima strage, e che dovrebbe essere invece costante, organico, centrale. Ogni giorno bisognerebbe analizzare quello che accade a livello internazionale, indagarne le cause, ascoltare più voci, anche leggendo più giornali. Ogni giorno in classe bisognerebbe sfogliare Le Monde, il New York Times, il China Daily, il Times of India. Costruirsi, ogni giorno, uno sguardo ampio, generoso, capace di apertura critica, di analisi profonda, di valutazione imparziale. Un difficile lavoro politico – ma insegnare è sempre un lavoro politico – per superare l’Italietta ignorante che legge la società complessa del terzo millennio con la profondità delle cartoline africane dell’Italia fascista.
In copertina: cartolina colonale fascista. Fonte http://www.casoesse.org
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