Governo

La sinistra too little too late

7 Marzo 2018

Peggio della sconfitta ci sono solo le analisi della sconfitta sbagliate.  Quelle che non si rendono conto che la sinistra per anni ha scambiato la protesta democratica per “populismo” stigmatizzandola e quelle che fanno della débâcle una questione di segretari, personalità, comunicazione, e non di coraggio delle idee e chiarezza di intenti.

Quante nostre bandiere sono state portate da altri e per quanto tempo?

In tutti questi anni non vi sanguinavano gli occhi a vedere le bandiere della lega sventolare con quelle del sindacato fuori dagli stabilimenti che delocalizzavano? Non vi sanguinavano le orecchie in campagna elettorale a sentire Di Battista dire che i Cinque Stelle avrebbero ricontrattato i vincoli di austerità che ci impediscono di avere sanità, pensioni e istruzioni pubbliche, accessibili e dignitose? La politica delle compatibilità e del governo a tutti i costi, perché responsabili verso Bruxelles invece che verso i cittadini, ha dato forza all’antipolitica. Peggio: mentre con una mano ne fomentava le cause, con l’altra la scherniva per i congiuntivi di Di Maio. Non vi si rompeva qualcosa dentro quando la Meloni spiegava che la globalizzazione ha aumentato le diseguaglianze e che loro sono gli unici a volerla combattere, o quando le destre e i grillini sembravano l’unica alternativa ai governi dell’ultima legislatura che hanno fatto della globalizzazione neoliberista, di Marchionne, dei favori alle banche e alle multinazionali la loro ragion d’essere?

La tutela dei territori, la difesa del patriottismo costituzionale, il conflitto aperto con chi fa gli interessi dei pochi, erano le nostre bandiere storiche. Le bandiere dei comunisti, dei socialisti, di chi dall’opposizione cambiava la storia e di chi al governo faceva riforme come la nazionalizzazione dell’energia elettrica.

Dietro quelle stesse bandiere giuste portate da altri si è celato l’attacco alla forma di democrazia organizzata dei cinque stelle e la xenofobia della nuova Lega di Salvini. Peccato che in un mondo sempre più diseguale non serva né inveire contro il primo né tanto meno scandalizzarsi per la seconda, soprattutto se nel frattempo non si sta facendo quasi nulla per combatterle a parte dire “siamo di sinistra”. Grazie a quelle bandiere sono arrivati dove una volta c’eravamo noi e hanno sostituito tassello a tassello il senso comune: dalla giustizia sociale all’ossessione del vitalizio, da lavoratori di tutto il mondo unitevi a prima gli italiani. Di sconfitta in sconfitta per anni si è sbagliata l’analisi rimuovendo le questioni (letteralmente) capitali.

In questo paese esiste un’enorme, gigantesca, opprimente questione di classe. Invece di occuparsi di quella le forze politiche che si gloriavano di essere considerate moderate, si sono occupate dei “populisti alle porte”. È un voto di classe quello che ha spaccato in due il Paese con un plebiscito grillino in meridione, dove lo Stato è più assente. All’aumentare del reddito si vota PD o Forza Italia, al diminuire è una vandea gialla se si ha un livello di istruzione medio o “Salvini Premier” se ci si è fermati alla scuola dell’obbligo. Urla questione di classe il voto dato alla Lega che pesca esattamente dallo stesso elettorato dei cinque stelle: classe-media-che-si-impoverisce e persino alcune frange popolari.

Gli elettori hanno sempre ragione e se hanno bocciato senza appello leu, pap e quel che resta del pd, è perché il “populismo” non è un problema importante come la pensione, la precarietà, la casa. Al pd e a leu sembrava interessare più l’argine al caos che altro e a pap sembrava interessare per lo più Massimo D’Alema. Questo non significa che il progetto di leu e di pap o persino qualche (flebile, quasi impercettibile) resistenza socialdemocratica nel pd non avessero buone idee o delle candidature di specchiata onestà. Ma era tutto too little too late.

Per questo fanno amaramente sorridere quelli che si consolano della batosta dicendo che “gli elettori non hanno capito” o quelli che “è una crisi della sinistra che attraversa tutto Occidente”: viviamo in un mondo mai stato così ricco nel quale non ci sono mai stati così tanti sempre più poveri, abbiamo tutte le tecnologie necessarie per ridurre le sofferenze e invece le vediamo aumentare. Chi, in questo contesto, non avverte la necessità di spiegarsi o l’urgenza di cambiare rotta a questo Paese e non solo, semplicemente non merita la fiducia dei cittadini.

Il risultato disastroso della sinistra italiana ha un grande vantaggio: far emergere ciò che in tanti dicevamo inascoltati e cioè che il “popolo del centrosinistra” non esiste più da anni e nemmeno quello della sinistra. Rimarrebbe da chiedersi se sia evaporato per magia o qualche responsabilità ci sia stata. Non bisogna essere esperti di politica per intuirne alcune.

Chi ha inseguito per sei mesi dei leader (sic!) confezionati sui giornali e non emersi dalle lotte sociali né dalla militanza, chi ha occupato gli spazi televisivi preoccupandosi di giustificare le proprie scelte passate congressuali o di tattica invece di parlare del programma che proponeva per il futuro e di come intendeva risolvere i problemi di quel ceto medio (sì: proprio quello), chi ha reso una battaglia per l’egemonia culturale una battaglia di sopravvivenza parlamentare, chi ha applicato il criterio delle liste costruite per i pochi e non per i molti: ha ragione da vendere chi dice che chi ha delle responsabilità in tutto questo dovrebbe dimettersi. Poiché tuttavia è più urgente e più utile fare politica che tribunali popolari – senza popolo per giunta –, invece di far cadere teste ci si rimetta all’opera, ricordando però che non serve a niente avviare la costruzione di un partito senza sapere cosa farsene.

La sinistra si è ossessionata per anni con la questione delle alleanze, ci ha fatto su congressi, scissioni, ritorsioni personali e collettive; ora quel problema è stato risolto dagli elettori che l’hanno resa ininfluente: perché era evidente che si chiedesse con chi fare le cose e non che cosa fare.

Per questo prima di ogni altra cosa bisogna fare una discussione di merito e contenuto: un’assemblea programmatica delle diseguaglianze e della precarietà, da quella e solo da quella può nascere un percorso. Dal massimo dell’apertura alle persone e alle storie e paletti solidissimi dal punto di vista delle idee e della proposta. Quei paletti mancati in questi anni che sembravano essere tutti sempre rinegoziabili pur di imbarcare un po’ di ceto politico di qua e di là. Ruolo dello Stato, lotta al disagio sociale, difesa delle specificità territoriali e ambientali e gratuità delle cure siano gli assi del confronto. Si vada in ginocchio da chi nella società è ancora disposto a politicizzarsi (e no, non necessariamente si trovano nei salotti buoni) e ha un qualche riconoscimento dal basso a chiedere di parteciparvi. Anche all’opposizione serve un programma.

Da ultimo: si bandiscano per sempre dai programmi tv, radio, persino dalle emittenti clandestine ecc. tutti quelli che, chiamati a dire chi sono e cosa vogliono, usano queste parole: sinistra, centrosinistra, alleanze.

Quelli che parlano ossessivamente di populismo, governabilità e mercati poi, li si può comodamente accompagnare ad un corso di Diritto Costituzionale: per ora, invece delle solite larghe intese  mandate da Bruxelles e votate alla macelleria sociale, stiamo assistendo ad ore di fibrillazione interessanti: l’Italia ha votato per sbloccare lo scenario politico e chissà che non ci sia riuscita. Il voto democratico e la protesta contro uno status quo iniquo sono un valore anche quando il risultato non è quello che piace.  Se la sinistra non si convince di quest’ultima cosa, può non disturbarsi proprio nel tentativo di rifondarsi.

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